Nelle ultime ore ho letto sui social moltissime esternazioni provenienti dall’area politica del “dissenso” che accolgono come una disfatta la vittoria di Lula in Brasile. Molte di queste uscite (molte, non tutte) provengono da persone che si sono interessate di politica internazionale soprattutto negli ultimi due anni e che hanno conosciuto Bolsonaro come “l’amico di Trump” che rigettava la soffocante cappa del politicamente corretto e le demenziali linee proposte in materia sanitaria da vari enti sovranazionali.
Purtroppo però si dia il caso che Bolsonaro, in realtà, sia proprio quello che, in ottemperanza ai dogmi di altri (ben più pericolosi) enti sovranazionali, ha promosso un’agenda economica ultra-liberista, tutta privatizzazioni e liberalizzazioni. In maniera non dissimile da quanto accaduto a noi in Italia nel corso del decennio ’90, il Brasile degli ultimi anni ha subito un clamoroso processo di smantellamento e (s)vendita di asset pubblici: aeroporti, autostrade, porti, banche… Persino le poste sono state privatizzate. Le poste.
Inutile dire che questa operazione, che produce le conseguenze che ben conosciamo nell’aggravare le disuguaglianze sociali, ha creato il terreno perfetto per un’ulteriore penetrazione dei capitali, ossia dei tentacoli, americani in Brasile. Che, per inciso, è il più pesante (non soltanto sotto il profilo economico) dei Paesi nel “giardino di casa” degli yankee.
“Ma allora perché Lula ha sposato alcune battaglie tipicamente globaliste? Perché Letta si rallegra per la vittoria di Lula?” Semplice: perché la realtà spesso è un tantino più complessa delle schematizzazioni cui ricorriamo per interpretarla. In particolare, la dialettica desta-sinistra in tutto il Sudamerica è, non proprio da ieri, molto diversa rispetto a quella che vediamo in Italia o, più in generale, nel “nord del mondo”. Nel continente del Che, tendenzialmente, la sinistra ha fatto proprie istanze socialiste e apertamente “sovraniste”, in totale ostilità nei confronti dell’influenza americana. Il signore che ha reso celebre il motto “Patria o muerte” non era proprio uno “dedestra”. Viceversa, la destra ha sempre portato avanti un’agenda ultra-liberista, apertissima agli americani e tipicamente conservatrice in materia di diritti civili.
Insomma, la dialettica sudamericana è molto diversa da quella nostrana: che ci piaccia o meno, ci sono formazioni apertamente “sovraniste” schierate a favore di istanze che, qui da noi, sono (a ragione) considerate del tutto funzionali al dispositivo americano della globalizzazione. Penso, tanto per fare un paio di esempi, alle battaglie condotte dalle queertransfemministe – spero di aver scritto bene – o alla lotta dei “gretini” contro “erclaimatceing”.
In questo scenario, dunque, occhio a dolersi per la sconfitta dell’evangelico Bolsonaro (e badate bene che già la confessione religiosa di per sé dice moltissimo sul suo rapporto con l’impero a stelle e strisce). Raccontarci che con lui il Brasile si è modernizzato, che è diventato finalmente capace di attrarre investimenti esteri, che è stato fatto fuori quel sistema marcescente di clientele prodotto negli anni precedenti da Lula e i suoi, significa aderire alla stessa narrazione che qui, a casa nostra, portavano avanti gli entusiasti ammiratori di Draghi e Prodi mentre si smantellavano “i carrozzoni pubblici improduttivi.” Quelli che, manco a dirlo, avevano fatto la fortuna dell’Italia della prima repubblica.Occhio, quindi. Non caschiamo vittima in casa d’altri di tranelli che denunciamo in casa nostra. E pazienza se per una volta ci troviamo seduti dalla stessa parte del tavolo di Letta. È lui che, tanto per cambiare, non ci ha capito un cazzo.
di Ludovico Vicino