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STEFANO DAL CORSO: RIGETTATA PER LA TERZA VOLTA ISTANZA PER AUTOPSIA MEDICO LEGALE DEL RAGAZZO ROMANO “SUICIDATO” IN UNA CELLA NEL CARCERE DI ORISTANO

di Ramona Castellino

Viene per la terza volta rigettata la richiesta da parte della famiglia Dal Corso, di autopsia medico- legale sul corpo di Stefano.

È sua sorella Mary a darne notizia, donna forte e arrabbiata, che da nove mesi chiede a gran voce di conoscere le circostanze che hanno portato suo fratello al decesso.

Stefano era un detenuto.

Viene trovato senza vita in una cella del carcere di Oristano, a detta del carcere, dopo essersi tolto la vita impiccandosi.

Prima di essere un detenuto però Stefano è un giovane uomo di 42 anni, è un padre ed è un fratello.

Proprio per questo, per chi Stefano lo ha amato e lo ama tutt’ora di un amore incondizionato, pensare che possa essersi tolto la vita, sulla base di non si sa quale “depressione” spuntata dal nulla, risulta impossibile da credere.

C’è stato il dolore, quello lancinante, quello che ti prostra e ti rende inerme che si è tramutato in sete di verità, in voglia di capire, di sapere come è morto Stefano e Mary lo chiede al carcere, a quelle persone che avevano in custodia suo fratello e dalle quali si è sempre aspettata una risposta.

Risposta che però non è mai arrivata e che ancora oggi nega ai familiari l’unica possibilità di sapere quello che è successo a Stefano il 12 ottobre del 2022.

La motivazione del rigetto autoptico da parte del giudice viene motivata dalla morte “pacifica” di Stefano per impiccagione e ne chiede l’archiviazione immediata.

Si arriva a questo punto, ricordiamo che questa è il terzo rigetto che si trova ad affrontare Mary nonostante le numerose ombre oggettive riscontrate dalla famiglia sull’ultimo giorno del giovane romano.

Premettiamo che Stefano era un ragazzo che stava scontando la sua pena che sarebbe terminata dopo pochi mesi, che a detta della psicologa che lo aveva visitato pochi giorni prima, non aveva mostrato alcun segno di depressione o di disagio, anzi relazionava un ragazzo propositivo, che guardava al futuro con speranza, con progettazione.

Ma le ombre sono tante e Mary cerca di capire, cerca delle risposte, chiede aiuto allo Stato, ma come spesso accade si ritrova un muro di gomma, fatto di omertà, di cose non dette, di verità taciute e mistificate.

Mary era ed è certa che Stefano non si sarebbe mai tolto la vita e vuole andare a fondo di una situazione che da subito appare torbida e piena di lacune.

Chiede subito un’autopsia sul corpo di Stefano.
Le viene subito negata.

Perché?
Perché le istituzioni, anziché fugare ogni possibile dubbio, nella pacificazione del proprio operato non si affretta ad accontentare la famiglia di Stefano e salvaguardare così anche l’operato di chi nel carcere ci lavora quotidianamente e che mai vorrebbe essere sporcato anche solamente dall’ombra di accusa infamante.

Viene risposto che l’autopsia ha un costo di diecimila euro e lo Stato non li vuole spendere per un detenuto che si è impiccato.

Mary allora cerca i soldi per poter effettuare l’autopsia privatamente, vuole che il suo corpo parli, le sveli cosa è accaduto quel maledetto giorno e chieda vendetta.

Si smuove qualcosa, si mobilitano associazioni, municipio, stampa, proprio per aiutare Mary a trovare questa cifra che le permetterà di conoscere la verità.

Ma c’è subito un ostacolo immenso e insormontabile: un’autopsia privata, in assenza quindi dei medici legali delle parti coinvolte, non ha valenza probatoria, quindi se il corpo di Stefano rivelasse una verità diversa da quella fornita dal carcere dove il giovane si trovava momentaneamente in custodia, non potrebbe essere utilizzata in tribunale.

Non solo: l’autopsia non è replicabile.

Se Mary l’eseguisse e poi il tribunale accordasse la sua richiesta, avrebbe perso ogni chance per chiedere giustizia.

Situazione che ha dell’assurdo e del tragico allo stesso tempo.

Mary riprova e per ben tre volte le viene negata questa possibilità di sapere e intanto Stefano aspetta in una cella frigorifera che con il passare del tempo cancellerà i segni di quello che è successo.

La richiesta di autopsia da parte della sorella di Stefano si basa sulla relazione di ben tre medici legali accreditati, un medico legale di Napoli, un patologo specialista e della nota dott.ssa Cattaneo, che hanno redatto ben 21 pagine di relazione in cui evidenziano come le ferite sul corpo di Stefano non siano attribuibili ad una morte per impiccagione, ma da uno strangolamento.

Viene subito contestata questa relazione in quanto per il tribunale è impossibile parlare di strangolamento basandosi solamente sulle foto del corpo di Stefano.

Da qui l’ennesima distopia: e allora perchè, a maggior ragione, non accordare l’autopsia?

Ma sono molti gli aspetti torbidi di questa tragica vicenda che sono stati tutti presentati in tribunale a supporto della richiesta della famiglia Dal Corso.

Dall’orario in cui viene trovato il corpo di Stefano.

La guardia carceraria che trova Stefano dice di entrare nella sua cella alle 14.50, mentre il medico chiamato a soccorrerlo afferma di aver effettuato il massaggio cardiaco alle 14.40 e di averlo eseguito per ben 45 minuti, senza lasciare su Stefano la minima traccia di pressione.

Al colore della sua pelle che ne ANTICIPA LA MORTE DI 12 ORE, cosa che se fosse riscontrata tramite l’autopsia aprirebbe uno scenario devastante per chi fino ad oggi ha dichiarato e sostenuto una versione diversa.

Alle otto guardie carcerarie che si trovavano accanto alla cella di Stefano, nessuna delle quali ha sentito la porta blindata della cella di Stefano chiudersi, cosa altamente vietata, prima che si impicasse, alla foto della cella di Stefano, relazionata sommariamente, per poi essere soggetta ad una seconda relazione molto più dettagliata, che assevera si fosse ritrovato anche un taglierino rudimentale con cui Stefano avrebbe tagliato il lenzuolo utilizzato per il suicidio, taglierino mai fornito in tribunale e dimentichi che il letto di Stefano, un depresso prossimo al suicidio, che aveva anche poco tempo per attuare il suo piano, tra la chiusura della porta della cella e l’arrivo di una guardia, era rassettato alla perfezione.

Che le scarpe del romano, che era appena rientrato dall’aria, presumibilmente sporche, non lasciano sulle lenzuola nessun segno e nessuna impronta, visto che il ragazzo necessariamente doveva salire sulla branda per appendere il lenzuolo e che al momento della sua morte portasse scarpe non sue.

Ai segni sul collo che non sono compatibili con l’impiccagione.

Tutti questi nei potrebbero essere chiariti con una semplice autopsia accordata dal tribunale.

Ma per ben tre volte viene respinta.

Perche?
Chi non vuole far emergere la verità su quel giorno?

Chi non vuole dire a Mary come e soprattutto perchè Stefano è morto.

Forse perchè se non si fosse realmente suicidato, tante persone dovrebbero dare una spiegazione…. dalle guardie carcerarie, alla direttrice del carcere di Oristano, dal medico che ne dichiara la morte, al PM e al giudice che negano l’unico strumento possibile per conoscere la verità per paura della verità stessa.

Tutto questo getta ancora una volta un’ombra spaventosa sulla situazione delle nostre carceri e sul trattamento riservato a chi sta scontando la sua pana e che ricordiamo è “affidato” all’istituto in cui si trova.

Continuiamo a chiedere giustizia e verità per Stefano, per sua figlia, per sua sorella Mary, donna di una forza incorruttibile, che dopo quasi dieci mesi dalla morte di suo fratello ha trasformato il suo dolore in rabbia e le sue preghiere di giustizia, verso uno Stato che avrebbe il dovere di dare risposte, in accuse gravissime.

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