Quella di Ratzinger non era una “sfida oscurantista” o, più precisamente, un oscurantistico rigetto del moderno e dei saperi scientifici, come pure provarono a etichettarlo gli aedi di quel progressismo che delegittima come regresso tutto ciò che alla sua avanzata non si pieghi. Era, semmai, la vibrante richiesta tesa a fare sì che economia, scienza e tecnica non rinnegassero Dio e l’uomo come sua immagine terrena. In particolare, la tecnica e l’economia meritavano, a suo giudizio, di essere promosse solo nella misura in cui avessero favorito lo sviluppo umano nel rispetto della legge naturale e dei valori non negoziabili della vita: per questo, dovevano invece essere avversate un’economia come quella liberista, mirante alla crescita smisurata e al cannibalismo ferino, e una tecnica analogamente intesa come illimitata capacità di creare scopi in nome della volontà di potenza incontrastata e, ancora, un consumismo sfrenato che avrebbe finito per consumare l’uomo stesso. La battaglia teologica e culturale di Ratzinger difendeva, dunque, le ragioni di un umanesimo radicale, fondato sulla concezione dell’uomo come immagine di Dio.
In sostanza, Ratzinger, contrariamente a quanto gli veniva attribuito dai suoi numerosi detrattori, non demonizzava la tecnica e l’economia in sé, ma il loro sviluppo distante dall’etica e da Dio: tecnica ed economia nel mondo globale, infatti, erano per lui espressione di una “libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé” (Caritas in veritate, § 70) e che surrettiziamente fa “coincidere il vero con il fattibile” (§ 70). Ratzinger ne traeva la conseguenza dell’esigenza di una libertà radicata nell’etica e nell’amor Dei, dunque a debita distanza dalla libertà liberista come licenza individuale deregolamentata, come capriccio edonistico e come volontà di potenza sciolta da ogni misura. Con le parole della Caritas in veritate, “dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria” (§ 68), ossia – diremmo hegelianamente – per una libertà “etica” (sittlich), situata e radicata nell’esperienza del limite, della comunità e della finitudine.
In maniera diretta, poi, Ratzinger – sempre nella Caritas in veritate – dardeggiava il globalismo come reductio ad unum del pianeta sotto le alienanti insegne della forma merce e della dittatura falsamente pluralistica del relativismo. Stigmatizzava la presenza di “un pericoloso potere universale di tipo monocratico” (§ 57) e auspicava l’avvento di un “governo della globalizzazione” (§ 57), in grado cioè di disciplinarla e di indirizzarla in maniera plurale e polifonica verso fini etici e rispettosi dell’imago Dei. Evocava espressamente un’autorità “organizzata in modo sussidiario e poliarchico” (§ 57), dunque sottratta all’imperialismo della monarchia del dollaro e delle sue istituzioni. In precedenza, Ratzinger aveva criticato la globalizzazione capitalistica, oltre che sul côté materiale della produzione delle disuguaglianze e delle asimmetrie, anche su quello culturale e spirituale dell’omologazione, richiamandosi all’immagine della Torre di Babele, emblema di “una forma di unificazione e un rapporto di dominio col mondo e con la vita che solo apparentemente creano unità ed elevano l’uomo. In realtà lo depredano della sua grandezza e delle sue dimensioni più profonde”. Dio – spiega Ratzinger – aborre il genere di unificazione proprio della globalizzazione e si oppone alla “cattiva unità” di Babele, che “è uniformante; gli uomini sono soltanto un popolo e parlano una sola lingua. La diversità voluta dal creatore è come compressa in una falsa forma di unità”. Sotto questo riguardo, la globalizzazione – imposizione planetario dell’inautentico – non è altro che “la volontà di ampliare gli spazi del proprio dominio, della propria ideologia, del controllo dei mercati. In questo quadro sono andate distrutte antiche strutture sociali, forze spirituali e morali”.
Da queste e da molte altre considerazioni affini svolte da Ratzinger prima e durante il proprio pontificato si evince, una volta di più, come egli abbia rappresentato l’estremo tentativo catecontico rispetto alle dilaganti potenze luciferine del nichilismo relativistico e, con le sue stesse parole, del “disincanto totale” generante “chiusura alla trascendenza”. Era come se, ex abrupto, la traiettoria intrapresa dal Concilio Vaticano II e il connesso processo di evaporazione del cristianesimo si fossero interrotti e la Chiesa avesse provato, con inedita vigoria, a ritrovare se stessa e la propria fedeltà alle ragioni del sacro e della trascendenza. Se l’ordine globocratico dei mercati aspirava alla rimozione integrale di Cristo e della trascendenza, con annessa riduzione della religione a questione privata o a umanitarismo ecumenico, in veste di pontefice Ratzinger si oppose apertamente a quella linea di sviluppo: e optò per la via della centralità assoluta di Cristo e della trascendenza. Basti, a tal riguardo, rammemorare che egli scelse di chiamarsi Benedetto in onore di Benedetto da Norcia, che aveva rivendicato la centralità assoluta di Cristo: “nulla assolutamente antepongano a Cristo”, si legge nella Regola (72, 11).
Nell’omelia pronunciata durante la messa di insediamento a San Pietro, nel 2005, Ratzinger chiarì che il suo pontificato sarebbe stato sotto il segno della tradizione, senza alcuna possibile apertura allo spirito del mondo e alle sempre più pressanti richieste di ridefinizione del cristianesimo in funzione del mondo stesso: “il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire i miei idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, così che sia Egli stesso a guidare la Chiesa”. Con queste parole, Ratzinger ribadiva che la Chiesa e il papa sono vincolati alla fedeltà al “deposito della fede” (depositum fidei), vale a dire alla natura stessa della Chiesa. Quest’ultima non dipende dalla volontà dell’uomo, essendo invece stata voluta e costruita da Dio stesso. Per questo, come Ratzinger aveva già chiarito, non la si può “riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento”, inventandola o rimodellandola ad libitum secondo l’arbitrio o le mode del tempo. Quello della Chiesa e della fede è, per sua essenza, un deposito che solo chiede di essere compreso e custodito fedelmente. E così devono essere intese le considerazioni di Ratzinger allorché, in qualità di sommo pontefice, spiega che la Chiesa non è nostra ma di Dio. Già nella Dominus Iesus del 2000 Ratzinger aveva insistito sul fatto che la dottrina tradizionale cattolica rappresenta il fondamento della Chiesa, contro le tendenze del relativismo à la page.
In termini analoghi, il 17 maggio del 2005, durante la messa nella Basilica di San Giovanni in Laterano, Ratzinger chiarì che il papa non è “un sovrano assoluto” e che il ministero del papa è “garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la sua parola”, cosicché lo scopo è “vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte a ogni opportunismo”. È un diverso modo per affermare che la Chiesa non è mera organizzazione culturale o sociale, liberamente gestibile da chi di volta in volta la amministra, magari anche per renderla compatibile con il sempre cangiante spirito del mondo. In queste parole di Ratzinger non solo era racchiuso l’atteggiamento che avrebbe contraddistinto il suo pontificato, improntato al vincolo di fedeltà alla Chiesa e alla tradizione: era anche già presente quell’inimicizia rispetto alle ragioni del mondo destinata a culminare, meno di dieci anni dopo, nella declaratio e nell’avvento di un pontefice dall’orientamento opposto, perché disposto ad agire come un “sovrano assoluto”, slegato dal depositum fidei e pronto a riorganizzare la Chiesa secondo le richieste del mundus.
Peraltro, Ratzinger era consapevole che l’esiziale tendenza alla mondanizzazione della Chiesa, destinata a portarla al tramonto, era principiata con il Concilio Vaticano II, di cui pure sempre difese lo spirito, sostenendo – in modo invero non convincente – che colpevole di ciò non era il Concilio Vaticano II in sé, ma una sua troppo “libera” e non neutra interpretazione. Quel che è certo è, per Ratzinger, che “nel post-concilio evidentemente non si è riusciti concretamente a trasmettere i contenuti della fede cristiana”. Vero è che Ratzinger venne allontanandosi delle posizioni progressiste che aveva per certi versi alimentato e vissuto in prima persona ai tempi del Concilio Vaticano II (al quale non partecipò in prima persona, ma fu tra i fondatori della rivista teologica di impostazione progressista “Concilium”, nel 1964), fino a prendere apertamente posizione contro la riforma liturgica operata da Paolo VI dopo il Concilio. Confessò, addirittura, di essere rimasto “sbigottito” per via del divieto del messale antico, poiché non si era mai verificata una cosa simile in tutta la storia della liturgia: “si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro”, al passo coi tempi. Venne sostituito il latino con le lingue nazionali e il prete iniziò a dire la messa rivolto al popolo, non più a Dio.
Questo “ammodernamento”, che da subito venne dai più salutato come una progressista apertura della Chiesa al mundus, rappresentava la base della sua stessa graduale neutralizzazione, secondo quella tendenza alla sostituzione del depositum fidei con un “prodotto” umano sempre aggiornabile che – come si è visto – il Ratzinger pontefice condannò senza riserve nel 2005: dal Concilio Vaticano II, “si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia ‘fatta’, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di ‘donato’, ma che dipende dalle nostre decisioni”. E ancora: “sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”, come un semplice costrutto umano convenzionale, coerente con i tempi del relativismo immanentista. L’erramento sta, appunto, nel pensare che la Chiesa debba essere concepita “come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento”, obliando il fatto che, certo, la Chiesa è abitata da uomini che ne organizzano il volto esterno, ma dietro vi sono sempre le strutture volute da Dio, dunque intangibili. Con le parole di Ratzinger, “dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana”, che non può essere riformata o modificata arbitrariamente (“la Chiesa non è nostra ma Sua”).
di Diego Fusaro