di Maurizio Neri
A sinistra, tranne nobili eccezioni, la questione della sovranità e dell’indipendenza nazionale non viene ancora considerata come la battaglia fondamentale dei prossimi anni.
Sarebbe sbagliato ritenere questa mancata presa di posizione come un’ingenuità politica o un abbaglio. Tutto ciò deriva, piuttosto, da una questione culturale. Ha ragione, ancora una volta, Costanzo Preve a ritenere la sinistra come «il luogo culturale dello sradicamento», e perciò «il referente culturale privilegiato per l’attuale globalizzazione capitalistica», per l’americanizzazione forzata del pianeta e per l’europeismo senza Europa. È dunque perfettamente normale, per chi abbia come prospettiva politica quella di rafforzare il cosmopolitismo capitalistico (magari credendo in questo modo di fare la rivoluzione!), non comprendere l’importanza della questione nazionale.
L’obiezione più forte che viene da sinistra è quella secondo cui la nazione sarebbe una falsa unità interclassista, «un’identità borghese e capitalistica, mascherata e travestita, venduta ai proletari dagli apparati ideologici di stato per trasformare i proletari stessi in carne da macello per le guerre imperialistiche. (C. Preve, “La Questione Nazionale alle soglie del XXI secolo”, Editrice C.R.T., 1998)
Tale posizione è politicamente molto debole (e che nega, del resto, la stessa storia del comunismo storico novecentesco, dall’URSS alla Cina di Mao), ma è ormai senso comune da parte del vasto popolo della sinistra italiana. È doveroso, quindi, rispondere.
La lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale, non è la negazione dell’Internazionalismo, ma ne è il suo presupposto. L’Internazionalismo prevede, infatti, un rapporto «fra nazioni differenti ed uguali» e non certo la negazione dell’identità nazionale, contrariamente a ciò che ritiene il luogocomunismo del ceto semicolto politicamente corretto di sinistra.
Liberazione nazionale e liberazione sociale dicevamo. Due elementi non in contrapposizione, ma assolutamente complementari. Senza l’elemento sociale, che prevede il conflitto (esterno ed interno), infatti, le istanze emancipatorie di una lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale rischierebbero di sfociare nella xenofobia, nel razzismo e nel nazionalismo. Così, quello che potrebbe essere uno strumento di liberazione dei popoli dall’oppressione capitalistica e dal mercato mondiale si trasformerebbe in un mezzo utilizzato dai dominanti per integrare la nazione all’interno degli stessi meccanismi di oppressione e discriminazione.
È necessario, quindi, integrare e far interagire tra di essi i due piani (la questione nazionale e la questione sociale). Per far questo è, però, al contempo, importante ridefinire il concetto di Classe, la Lotta fra Dominati e Dominanti, che, proprio grazie alla questione nazionale, sappia adattarsi al mutamento delle realtà sociali.
La questione nazionale, per porsi come efficace strumento di liberazione dei popoli oppressi, non può, dunque, essere distinta da quella sociale come, del resto, avevano già compreso, dagli anni ’40 in poi, tutti i movimenti anticolonialistici del Terzo Mondo, e che oggi non ha certo perso validità poiché:
«I particolarismi di qualsiasi tipo sono considerati incompatibili con la logica del sistema capitalista, o perlomeno in ostacolo al suo funzionamento ottimale. Ne consegue che all’interno di un sistema capitalistico è un imperativo affermare e mettere in atto un’ideologia universalistica [ben diversa dal concetto filosofico di “universalismo” – N.d.r.]come elemento essenziale dell’incessante ricerca di accumulazione del capitale. È per questo che parliamo delle relazioni sociali capitalistiche come di un “solvente universale” che lavora per ridurre tutto ad una forma omogenea di merce la cui unica misura è il denaro». (E. Balibar, I. Wallenstein, “Le identità ambigue”, Edizioni Associate, pag. 43)
La tendenza al superamento delle barriere tradizionali è, infatti, alla base del capitalismo (così come, culturalmente, il superamento dei legami comunitari “borghesi”): per questo le rivendicazioni nazionali possono diventare oggi lo strumento più efficace contro le tendenze cosmopolite del capitalismo, ma solo se unite ad una prospettiva di liberazione dallo sfruttamento, e al rilancio della nuova Lotta di Classe tra Dominati e Dominanti.
Un’alleanza naturale che sarebbe bene che la sinistra, e più in generale le forze antisistema, iniziassero a comprendere. Mentre il capitale e i capitalisti “espatriano”, si mondializzano, nella nazione restano gli sfruttati, i lavoratori, i disoccupati, i cassintegrati, che non hanno più nemmeno la possibilità di essere venduti sul mercato mondiale (perché l’offerta di lavoro è eccedente ovunque) e che difendono il proprio lavoro (nella propria nazione) contro gli effetti del sistema economico mondiale, contro i diktat europei, contro la dittatura del dollaro e dell’Euro.
È evidente che, per tutelare i propri interessi, i lavoratori (intesi in un’accezione la più larga possibile) dovranno dare una caratterizzazione “nazionalitaria” alle loro lotte, al conflitto esistente tra i propri interessi di classe e le tendenze globalizzatrici del capitalismo.
Ottenere una vera e sostanziale, e non soltanto formale, liberazione nazionale vuol dire, dunque, anche liberazione degli oppressi da cui quella nazione è composta. Non certamente mettersi in concorrenza con l’imperialismo, dare vita a forme di sub-imperialismo (quello, cioè, che cercano di fare i governi europei) né, tantomeno, mantenere inalterate le differenze di classe.