3 giugno 2020. Nel carcere di Opera, muore in circostanze ancora da chiarire il detenuto ergastolano Francesco Di Dio. I familiari, raccolti nel dolore, attendono fiduciosi che le indagini della Procura facciano luce sul decesso inaspettato del loro caro. È stato aperto un procedimento penale a carico di ignoti, ma i giorni passano e niente sembra muoversi.
13 luglio 2020. A distanza di 40 giorni i familiari decidono di fare richiesta formale perché vengano acquisite le registrazioni della videosorveglianza del 3 giugno del reparto dove si trovava Francesco.
Dal carcere nessuno si muove né si degna di rispondere, finché, il 6 novembre, a distanza di quattro mesi dalla richiesta dei legali della famiglia della vittima, il direttore scrive alla Procura della Repubblica di Milano che “le telecamere risultano regolarmente funzionanti nella sezione dove è avvenuto l’evento. Tuttavia in considerazione del lasso temporale trascorso tra l’evento e la richiesta dei filmati, allo stato non è più possibile recuperare le immagini in quanto sovrascritte”.
Il fatto è che la richiesta dei legali era stata depositata dopo 40 giorni dal decesso, ovvero – ricorda la zia Maria Di Dio, una donna coraggiosa, dal cuore combattivo, in cerca di verità e giustizia, con la quale dialogo da settimane – “abbondantemente entro i 90 giorni prescritti dalla legge. Controlla le date”, mi dice mostrandomi i documenti. “La risposta del direttore arriva, invece, dopo 5 mesi. Quei filmati avrebbero potuto e dovuto essere acquisiti”. La loro cancellazione è uno dei molti misteri che avvolgono tutta questa vicenda che subodora, forse per negligenza forse per chissà che, di insabbiamento.
Francesco trascorre la sua infanzia con la nonna e le zie, giovanissime, che gli fanno da sorelle maggiori. La nonna lo tratta come un figlioletto, le zie lo curano come un fratellino. Il bambino viene amato in questo ambiente protetto.
Quando compie dieci anni, la madre lo rivuole a casa. È nata nel frattempo una sorellina e la donna ha bisogno di Francesco perché gliela badi mentre lei va a lavorare. Lui è amorevole con la sorella e assolve il suo compito.
Gli anni passano, diventa adolescente. I ragazzi di paese crescono in fretta, si sentono grandi, sanno di non avere prospettive di un futuro roseo in una terra che non offre niente. La scolarizzazione è bassissima. L’ignoranza fa da padrona. Le possibilità di costruirsi una vita serena sono percepite come un’ipotesi assurda. Nessun lavoro. Nessuna protezione sociale. Nessuna tutela delle fasce deboli.
In questo clima il malcontento e lo scoraggiamento preventivo diventano facile preda della mafia. Ai giovani si fa credere di essere avventurieri, di potersi conquistare il futuro a morsi. Li si attira con patti di sangue, soldi facili e gratificazioni gregarie; si dice che uniti sono onnipotenti, si mette loro una pistola in mano; i nuovi valori si basano sulla “famiglia” e sui nuovi “fratelli di sangue” che li hanno raccolti dalla strada.
Ed ecco che, a diciott’anni appena compiuti, questi ragazzini si ritrovano condannati all’ergastolo per strage di mafia. I loro capi collaborano subito con le forze dell’ordine, facendola franca. I picciotti si sono beccati l’ergastolo ostativo, quello da cui non si torna indietro. Le famiglie di questi ragazzi non sono forti o potenti. Un pentimento, una dissociazione le avrebbe esposte al rischio di ritorsioni.
E così questi ragazzini imberbi si ritrovano nei bracci speciali, nel famigerato circuito del 41bis, un circuito in cui anche i più inesperti ragazzini vengono classificati come boss di mafia, senza esserlo mai stati. Qualcuno più in alto aveva ordinato loro di sparare ad altri picciotti. Qualcuno li ha venduti per avere sconti di pena, per ottenere la protezione dello Stato italiano, per avere la garanzia di morire fuori di prigione.
I picciotti non possono, invece, “buttarsi pentiti” se non vogliono nuocere ai familiari. Non è la falsa “famiglia” della stidda, ma la loro famiglia vera e incolpevole ad essere a rischio. E così Francesco e i suoi amici, come hanno tolto la vita, così decidono di accettare di essere seppelliti in galera, per salvare la vita ai propri cari. È una storia molto comune. Sono giovani e belli, sani come pesci. Trascorrono uno o due lustri al 41 bis a L’Aquila e ne escono piegati, per entrare nell’eterno girone dell’Elevato Indice di Vigilanza e dell’Alta Sicurezza.
Nel carcere di Carinola, Francesco accusa dolore alla gamba. Le visite sono sempre superficiali e ridicole. Per tre mesi lo curano per una lombosciatalgia. Ma il dolore peggiora. Solo quando il piede diventa completamente nero si decidono a portarlo al Pronto Soccorso a Castel Volturno. Ha una vena otturata che gli ha mandato in cancrena il piede. Gli diagnosticano il morbo di Buerger, una tromboangioite obliterante autoimmune che causa l’infezione e poi l’ostruzione di vene e arterie.
Risultato: tre mesi di diagnosi sbagliate hanno portato all’amputazione del piede. “E poteva andargli pure peggio: in ospedale volevano amputargli la gamba, ma poi, grazie ad alcune cure, la circolazione è in parte ripresa, sicché si sono limitati a tagliargli solo il piede”, dice Maria.
Terminata l’operazione, viene ricondotto nell’unico luogo al mondo incapace di accudire un malato invalido. Non ha ancora quarant’anni. È palesemente incompatibile rispetto alla vita detentiva, ma per quelli come lui non esistono seri problemi di salute: per quanto abbiano commesso un solo reato, in un periodo della loro vita in cui erano troppo piccoli e troppo stupidi per capire, devono morire in carcere. Le ragioni di custodia sono più importanti di qualsiasi ragione di salute.
Nel carcere di Opera Francesco si avvicina all’associazione Nessuno Tocchi Caino. Ai nuovi compagni di battaglie in difesa dei diritti dell’uomo, racconta finalmente la sua storia, dopo averla per decenni seppellita dentro di sé. È questo il segno di un profondo cambiamento interiore. La volontà di aprirsi, di confrontarsi, di combattere per i dannati della terra. Un cambiamento radicale e sincero, senza processi, senza tornaconti personali, senza collaborazioni in cambio di benefici egoistici. Un discostarsi radicale dal mondo delle stidde che non esiste più. Certamente non esiste più la “sua” stidda, finita decenni prima col pentimento dei capi e il seppellimento dei piccoli in loculi di dieci mattonelle per sette.
Francesco lotta per i detenuti malati, gli ultimi degli ultimi. Racconta la sua storia di malattia e mutilazione. Ha voglia di ridere. Ama stare con gli altri. Quando incontra qualcuno, ai colloqui, il suo sorriso è lì per tranquillizzare. È lui a far coraggio ai suoi visitatori. Avrebbe poco da gioire, in realtà. È molto malato e ogni 4-5 mesi lo portano in ospedale per controlli.
Poi, improvviso, scoppia il covid e il carcere diviene il luogo in cui la pandemia viene gestita nel peggiore dei modi possibili. Francesco sa di essere molto più a rischio delle persone sane e ha paura. Rifiuta di essere ricoverato in ospedale, con grave pregiudizio per la sua salute. La famiglia fa istanza per un ricovero in una struttura di Gela, ma il direttore la rigetta.
Col covid i colloqui sono interrotti. Nelle telefonate, Francesco racconta di un clima allucinante: i detenuti sono perennemente chiusi in cella, in un isolamento perpetuo; nessuno si avvicina alle sbarre, nemmeno i medici si fanno vedere. Per uno nelle sue condizioni può significare la rovina.
Per un anno tira avanti in queste condizioni, fino a quel fatidico 3 giugno 2020. Trovato morto in cella senza che nessuno si sia accorto di niente, le telecamere hanno registrato tutto, ma il personale ha sovrascritto i nastri prima del tempo legale.
Non sappiamo cosa possa essere successo, ma è necessario che le indagini proseguano perché i dubbi sono molti: infermieri che non vengono interrogati, medici legali che si glissano come fantasmi, avvocati che rifiutano di far comparire il proprio nome… Non li elencherò tutti. Solo uno mi sembra degno di essere raccontato più degli altri.
“Francesco forse soffriva di ansia”, dice la zia Maria. “Gli sudavano le mani. Una volta, durante un colloquio, gli uscì una lacrima e lui la nascose per pudore. Certamente gli davano qualche farmaco”. In carcere non si trovano le tachipirine, ma gli psicofarmaci vengono somministrati a iosa a scopo contenitivo.
La sera del decesso, però, è successo qualcosa di impensabile. Durante l’autopsia del cadavere, hanno trovato nello stomaco di Francesco un cocktail di 18 psicofarmaci. “Il medico – continua il racconto della zia – ha giustificato questa presenza anomala con un errore di un infermiere. È possibile che un infermiere si sbagli di una pastiglia, ma non di 18 pillole! Francesco con avrebbe mai assunto 18 pillole per sbaglio!”
“Inoltre, secondo la perizia del medico legale, quelle pastiglie non sono state la causa di morte, perché al momento del decesso non erano ancora entrate in circolo. Quindi Francesco non tentò un suicidio con l’aiuto di un infermiere sbadato. Quel dannato cocktail di psicofarmaci è stato ingurgitato pochi secondi prima della morte, senza che ci fosse il tempo che cominciasse a fare effetto”.
La zia ne è sicura, i fatti sembrano proprio parlar chiaro: “Non ha cercato di suicidarsi. Quel cocktail di farmaci gli è stato dato troppo tardi, quando stava già morendo. Più che a un suicidio, sembra di trovarsi di fronte a un suicidio simulato”.
“Caro Willi, vorrei farti vedere le fotografie del cadavere di mio nipote. Ha segni sul collo e sulla schiena che non lasciano pensare a una morte naturale. Ho dato queste foto soltanto alla Procura. Non voglio diffonderle per rispettare l’immagine di mio nipote. Spero che i magistrati lavorino per far emergere la verità”.
Lo speriamo tutti. Lo speriamo non solo per Francesco e per tutte le morti sospette dimenticate dell’inferno carcerario. Lo speriamo per noi, perché è dalle carceri che si misura il grado di civiltà di una nazione.
William Frediani