Maurizio Neri
Se si fa piazza pulita del momento politico riflessivo, razionale, autonomo, sovrano, e democratico-partecipativo, in effetti è implicitamente aperta la strada per la visione del comunismo come creazione di una tabula rasa pura su cui il puro essere umano sociale può innestarsi liberamente e in spontaneità.
La tabula rasa è divenuto in effetti un motivo dominante di una certa retorica comunista, e il messianismo si ripropone con il mito della cancellazione del passato, dell’abbattimento delle tradizioni (viste, a torto, come legate indissolubilmente al modo di produzione contingente), la proposizione di uno schema manicheo per cui vi sarebbe un mondo borghese (con tutti i suoi corollari della cultura, la religione, l’arte) e un mondo proletario (con la sua cultura nuova, l’arte nuova, il linguaggio nuovo, ed infine, persino, l’uomo nuovo).
Questa impostazione ha segnato profondamente la storia dell’utopia comunista impedendo al comunismo, come sacrosanto ideale emancipativo e comunitario, di divenire movimento reale che si innesta nella realtà, facendolo divenire nella percezione comune un astratto ciclone rigenerativo, una tempesta improbabile simile al diluvio universale che avrebbe riportato armonia nel mondo.
Ci tengo a sottolineare che il vero movimento rivoluzionario in senso di innovazione permanente (non certo etica, ma materiale ed infinita), il vero motore dell’ideologia del progresso illimitato e del presunto miglioramento illimitato è stato il capitalismo ed è tuttora in forma sempre più esasperante il capitalismo mondializzato a egemonia tecnica e finanziaria.
Il comunismo storico si è rivelato infatti stagnante, chiuso, autarchico ed autocratico e ultra-politico (in senso autoritario), e non ha retto il confronto innovativo con il più snello, aperto, dinamico ed agile sistema capitalistico conflittuale, fondato sul mito rigenerativo e consolatorio del progressismo illimitato e del miglioramento tecnico irrazionale e vorticoso.
Qualunque riproposizione del comunismo deve dunque ripartire dal semplice desiderio di comunità, di comunanza e di solidarietà, senza alcun ricorso a miti progressisti o messianici.
Non solo il progresso materiale come feticcio deve essere contestato alla radice, ma anche e soprattutto la pretesa assurda dell’era dell’uomo nuovo.
E proprio dalla constatazione che non vi sarà mai e poi mai nessun uomo nuovo, e che questo mito non è altro che una forma di estremo autocompiacimento illusorio, che bisogna ripartire con coraggio.
L’uomo è e resta un essere contraddittorio costituito da sentimenti e da anime spesso in contraddizione, teso al bene, ma continuamente richiamato dal proprio egoismo.
Non è l’abbattimento ontologico dell’egoismo una missione storica del comunismo. L’egoismo permarrà a livello collettivo finchè permarrà il genere umano, e la liberazione dall’egoismo è percorso intimo e inviolabile che spetta a ciascuno di noi in comunione con il prossimo, in un rapporto dialettico ed aperto con la comunità.
Di tale egoismo naturalmente si può e si deve parlare nella comunità (come si può parlare del matrimonio, della famiglia, della virtù e del vizio), ma non lo si può invadere con considerazioni meccanicistiche di innovazione rigenerativa collettiva. Se lo si fa si sta pretendendo senza fondamento di sostituire l’intimo, con un inarrivabile comune.
Non sarà lo stravolgimento (legittimo e auspicabile) dei rapporti di produzione e la costruzione di vere comunità solidali a darci il paradiso in terra.
A ciascuno il suo paradiso nel proprio cammino. A ciascuno la propria personale liberazione.
Ciò che il comunismo e la comunità portano con sé come “missione” è il richiamo all’ovile naturale della contraddizione personale e sociale dell’uomo, non il suo annullamento (impossibile attraverso il sociale e solo possibile a livello personale).
Il richiamo cioè della contraddizione naturale che caratterizza la nostra vita alla sua dimensione più pura, alla sua essenza più visibile, tramite l’abbattimento di incrostazioni sociali perniciose e confusionarie che ci tolgono la visibilità delle cose e della nostra complessità, entrando illegittimamente nella nostra vita, e tramite la costruzione comune di strutture buone e di momenti solidali permanenti ed aperti.
Oltre ogni patina progressista e messianica di sorta, un pensatore come Marx si riferiva a qualcosa di molto simile, ma ogni disquisizione a riguardo esula dallo spirito di quanto scrivo, essendo la cattiva percezione del comunismo e la sua cattiva proposizione e assimilazione nella storia, nonché le potenziali nuove degenerazioni da cui guardarsi, l’oggetto del mio accoramento.
La vita comunitaria solidale è dunque un’aspirazione al vivere la propria vita in un contesto che sia il più possibile conforme alla nostra natura solidale potenziale, che ci aiuti a rivelare ed a svolgere in libertà la parte migliore del nostro essere inteso in tutta la sua complessità.
L’avversione per una società che stimola nel quotidiano i nostri peggiori istinti, non è una lotta contro l’esistenza di quegli istinti (che lo ripeto, non può che avvenire su un piano personalissimo) ma una lotta contro il loro innaturale essere protagonisti e la loro sollecitazione esterna perversa e continua.
Dunque, nessun uomo nuovo, nessun sol dell’avvenire.
Perché passare dall’uomo nuovo alla cocente delusione per la sua non esistenza evidente è il grande passo naturale che ha massacrato una generazione di comunisti in superficie e nell’allegra gioventù, riciclati in bombardatori umanitari cinici pronti a tutto ed in teorici del conflitto capitalistico come dato naturale microeconomico.
Questo a mio avviso è un passo fondamentale che deve essere fatto senza remore e che potrà risvegliare la coscienza di tanti scettici del comunismo che, impauriti con ragione dal suo aspetto messianico, lo hanno considerato, ancora con buone ragioni, un pericoloso tentativo di sostituire la società all’uomo, di abbattere la complessità dall’esterno e di incorporare l’intimità nella collettività.
A questo punto qualcuno potrà chiedersi se dunque le mie parole non fanno che confermare la tanto decantata impossibilità di costruire il bene in terra al di fuori della mera azione da persona a persona. Se infatti si afferma che l’uomo nuovo sociale semplicemente non esiste, e che la salvezza passa per ciascuno di noi, allora perchè tanto affannarsi per il comunismo e per la comunità?
Non sarebbe più semplice accettare l’ordine costituito mettendosi l’anima in pace e garantendo un’ordinata “governance” (come piace chiamarla oggi) dell’economia, evitando solo eccessivi squilibri tra ricchi e poveri nel mondo?
Ebbene la risposta è invece l’esatto contrario di questo.
Proprio una volta constatato il limite e la misura dell’agire sociale, una volta compreso che l’uomo nuovo non esiste, è possibile perseguire con ogni forza e convinzione, senza paura e senza inganni, liberi da deliri, quello che ritengo non solo un legittimo tentativo, ma un doveroso processo di costruzione di una comunità umana attraverso una lotta senza quartiere al capitalismo e alla sua ideologia perversa e nociva. E questo, proprio in virtù del fatto che intimo e comune, non sono sfere ontologicamente separate, ma semplicemente ben distinte, e dunque il comune (in questo caso, nel capitalismo, il sociale, laddove una comunità politica non esiste) condiziona pesantemente l’intimo rischiando di ridurlo schiavo e malato. Per questo è doveroso lottare il capitalismo e la sua ideologia.
Chi difende il capitalismo come ordine sociale, e allo stesso tempo crede all’importanza dell’etica comunitaria è abbagliato da una visione alterata di intimo e comune, e continua a credere, sbagliando, che vi sia un privato ontologicamente separato da un pubblico. Sul fronte opposto, d’altronde sbaglia parimenti chi vuole fondere intimo e comune, cioè privato e pubblico in un unicum artificiale, negando l’individualità e negando per analogia la comunità intermedia come momento etico di trapasso tra sé e il comune.
Entrambi gli errori sono fonte di malintesi esiziali e conducono all’immobilità di fronte alla barbarie montante.
Ogni riflessione riparta da qui.