Giulio Sapelli, già docente di Storia economica presso l’Università di Milano, in “Oltre il capitalismo. Macchine, lavoro, proprietà”, adottando un approccio interdisciplinare, svolge una riflessione critica sulla globalizzazione e sul capitalismo finanziario; si tratta di una critica che, per ammissione dello stesso autore, è formulata affrancata dal “pensiero unico” che, a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, è valso ad allontanare il mondo dalla “conoscenza della società e delle sue relazioni economiche”.
Ciò che spinge Sapelli ad estraniarsi dal pensiero unico riguardo alla valutazione della globalizzazione e del capitalismo finanziario, è il fatto che esso si sarebbe formato in “una prospettiva analitica metodologica individualistico-comportamentista”, che lo avrebbe condotto ad una “ipostatizzazione antropologica materialistico-acquisitiva dei componenti i sistemi sociali, unicamente orientati ad agire secondo una “razionalità illimitata […] massimizzante le utilità pecuniarie”.
L’ipotesi che supporta tutto il pensiero critico di Sapelli è invece che “l’economia sia una parte e non il tutto della società e che dalla società e quindi dalle relazioni interpersonali e dai comportamenti personali essa sia determinata”; tutto il contrario delle ipotesi standard, sia di quelle propriamente marxiane, che di quelle della teoria economica neoclassica, “ideologicamente neoliberiste”.
Questa posizione metodologica personale spinge Sapelli a dichiarare che, con il nuovo libro, intende porre le basi per una ricerca scientifica sui fenomeni della globalizzazione e del capitalismo finanziario che vada oltre le “riduzioni” della loro complessità analitica, assumendo che la loro conoscenza non sia mai un “processo lineare”, ma un percorso “frastagliato e tortuoso” che concorre a formare “delle culture in senso pienamente antropologico”.
Aver ignorato la storia nella spiegazione di fenomeni sociali, quali sono quelli della globalizzazione delle economie nazionali e la finanziarizzazione dei mercati, ha causato una “deprivazione” della comprensione della loro natura, in quanto si è cercato di presentarli, fuori da ogni prospettiva storica, come fenomeni assoluti e non già transeunti. Se la storia fosse stata tenuta presente – afferma Sapelli – sarebbe stato possibile capire che la globalizzazione e la sua finanziarizzazione non erano altro che il “ciclico riproporsi di eventi” già conosciuti.
Il fatto che, a partire dagli anni Novanta, la globalizzazione (finanziaria e non) si sia riproposta dopo la fine della Guerra Fredda e il crollo del Muro di Berlino non è che la dimostrazione che essa è “più un fenomeno dalle radici storico-culturali che economiche”; in quanto tale, perciò, la globalizzazione (finanziaria e non) non può essere ridotta soltanto ai grafici che ne misurano gli effetti, senza la considerazione delle cause storiche che concorrono a determinarli.
E’ la rappresentazione riduttiva della complessità del fenomeno della globalizzazione che motiva Sapelli, nel formulare il suo pensiero critico del capitalismo neoliberista, a dichiarare di preferire di rimanere fedele “all’impostazione classica”, in luogo di quella neoclassica nella sua coniugazione neoliberista.
Ciò perché, la prima è quella che, a suo parere, consente di considerare l’economia per “ciò che essa realmente è” e non, come gli establishment dominanti vorrebbero, come un insieme di “teorie separate dalla morale, perché separate dall’umano, in cui la persona è assente”.
Per Sapelli, l’economia è, al contrario, la “concretizzazione di una filosofia morale che si fonda su un’immagine antropologica dell’uomo”. Da ciò discende che essa (l’economia), in teoria e nella prassi, deve essere “un’economia non per il profitto, ma per la persona”, mentre il mercato “non può che essere “un evento probabilistico […], dominato spesso dall’imperfezione dilagante e soprattutto soggetto della ciclicità della crescita come della depressione e della crisi”.
Fedele all’impostazione economica classica, Sapelli afferma che la globalizzazione delle economie nazionali, ripropostasi dopo la fine della Guerra Fredda, era da ricondursi al fatto che i gruppi dominanti nella gestione dell’economia globale si sono convinti che “la lotta all’inflazione e in primis al debito pubblico” era diventata il fattore fondamentali della crescita mondiale. Oggi, però, proprio per effetto della Grande Recessione iniziata nel 2007/2008, la globalizzazione (finanziaria e non) si è trasformata, poiché nel corso del lungo ciclo economico-politico durante il quale essa si è espansa, la crescita è diminuita, mentre il reddito si è “spostato dal lavoro al capitale”, con conseguente crollo della domanda aggregata.
Ciò ha fatto sì che le risorse finanziarie abbandonassero le forme tradizionali del loro impiego nell’economia reale, “generando stagnazione occupazionale, che la produzione dei neo-servizi dell’economia finanziaria non è riuscita a compensare”. La fine del lungo ciclo economico-politico della globalizzazione ha determinato che il mercato internazionale, tradizionale luogo regolatore degli scambi e dei meccanismi della crescita, divenisse prevalente sul “consenso elettorale”, e perciò sull’attività politica, annunciando – afferma Sapelli – “l’inizio del totalitarismo liberistico”, che ha dato origine alla decadenza in cui il mondo capitalistico è precipitato, governato da forze politiche totalmente prone ai diktat dei gruppi economici dominanti.
Sapelli, col suo libro, propone una “fuoriuscita dalla crisi del mondo attuale, attraverso la “riattualizzazione di un socialismo neo-comunitario non statualistico”, diverso da quello perseguibile con la “riproposizione di un’economia pianificata, regolata grazie alle eccezionali potenzialità tecnologiche” di cui oggi si dispone.
Sapelli ritiene impossibile una riforma del capitalismo neoliberista fondata su queste potenzialità, sostenendo che la disoccupazione di massa strutturale e l’aumento della povertà siano fenomeni che possano essere meglio contrastati ancora con “la lotta politica e la realizzazione di segmenti economici alternativi alla logica dominate”.
Se tali “segmenti” si volessero praticare nella prospettiva di un’economia pianificata, allora, secondo Sapelli, ciò può avvenire solo “nel contesto di un socialismo comunitario fondato su forme di allocazione dei diritti di proprietà non capitalistiche democraticamente e non tecnocraticamente gestite”. In altre parole, deve trattarsi essenzialmente di un “neo-socialismo con un mercato sempre più ben temperato dalla crescita”, supportato dalla “creazione di nuove forme di allocazione dei diritti di proprietà” e da un nuovo ruolo dello Stato imprenditore, dal rilancio dei corpi intermedi e delle organizzazioni dei lavoratori. Si tratta di una forma di socialismo che Sapelli dichiara di mutuare dal pensiero di Adriano Olivetti, le cui linee fondamentali sono quelle contenute in due sue opere: “L’ordine politico delle Comunità” (1945) e “Stato federale delle comunità” (1942-1945).
Il riferimento al socialismo dell’imprenditore di Ivrea vuole essere per Sapelli “una testimonianza di fedeltà intellettuale”, che ha profondamente influenzato – egli dice – tutta la sua vita. L’attuazione del socialismo olivettiano, per quanto possa implicare un percorso lungo e impervio, conclude lo stesso Sapelli, merita di essere sperimentata, “a dispetto di ogni offensiva reazionaria, quale quella che ogni giorno si dispiega contro coloro che non si piegano alla regressione imposta dal pensiero unico dominante”.
Ma quali sono i tratti essenziali del neo-socialismo che Adriano Olivetti ha elaborato nei primi anni Quaranta del secolo scorso?
E’ lo stesso Sapelli a descriverli nell’ultima parte del suo libro, intitolata “Olivetti ritrovato, ossia grammatica della speranza”. I tratti essenziali del socialismo olivettiano prefiguravano una “terza via”, compresa tra il socialismo realizzato di stampo sovietico e il liberalismo identificato nel funzionamento del mercato senza controlli.
Alla base della terza via sta la concezione di una società socialista (fondata sulla democrazia politica e la libertà individuale), orientata a consentire all’uomo di vivere in una “Comunità concreta”, costituente un corpo intermedio definito dai rapporti economici e da quelli culturali e sociali che si dispiegano tra i componenti la “Comunità”. La dimensione di questa deve essere a misura dell’uomo e riferita alle possibilità organizzative degli enti locali (comune o gruppo di comuni) che la comprendono, in quanto strumenti di autoregolazione dal basso degli organismi economici che agiscono cooperando all’interno della Comunità. Inoltre, quest’ultima deve essere la “cellula” dell’organizzazione su basi federalistiche dello Stato, formato da tutte le Comunità in quanto circoscrizioni politico-economiche.
All’interno dello Stato federale, la società socialista è edificata attraverso la socializzazione dal basso della base economica di ogni Comunità, resa possibile dal trasferimento della maggioranza della proprietà all’ente politico (comune o gruppo di comuni) che governa la Comunità. In sostanza, la società socialista olivettiana si riduce ad essere la municipalizzazione della maggior parte delle strutture economie di tutte le Comunità.
Giudicando la configurazione succintamente descritta della società socialista, secondo la visione di Adriano Olivetti, non sfugge il fatto che il suo impianto ricalca, quasi per intero, la configurazione della società socialista (libera e democratica) ipotizzata da Giuseppe Mazzini.
Le sole differenze sono riconducibili al fatto che, contrariamente al socialismo olivettiano, quello mazziniano non trasfigura la natura cooperativa dei rapporti economici nella municipalizzazione dei mezzi di produzione, né prevede un’organizzazione dello Stato su basi federalistiche.
L’”avversione” di Mazzini per lo Stato federale (certo, non per il decentramento amministrativo a livello regionale o locale dello Stato unitario) era dettata dal convincimento (non infondato) che la soluzione del problema dell’Unità nazionale su basi federalistiche potesse porre seri ostacoli alla liberazione dal dominio dello straniero di quella “espressione geografica”, l’Italia, intesa da Mazzini come Patria di tutti i suoi cittadini; a ciò andava aggiunto il pericolo che potesse essere compromessa anche la possibilità di realizzare, su basi solidaristiche e non conflittuali, un’equità distributiva nella ripartizione tra le comunità degli ex Stati preunitari delle opportunità economiche ed extraeconomiche nascenti dalla raggiunta costituzione del nuovo Stato italiano indipendente.
Tuttavia, la realizzazione di una società socialista, sia essa quella di Olivetti o quella di Mazzini, richiede, come osserva in generale Sapelli, che risulti conforme ai problemi posti della globalizzazione; entrambi, Olivetti e Mazzini, nel formulare la loro proposta di società socialista, avevano come punto di riferimento “un mondo in cui il mercato non era ancora globale” e l’attività economica, ora per lo più finanziarizzata, non era ancora caratterizzata da una capacità espansiva del prodotto sociale sorretta dal continuo miglioramento dei processi produttivi; causa, questi ultimi, del fenomeno (inimmaginabile per Olivetti, e ancor più per Mazzini) della disoccupazione strutturale irreversibile della forza lavoro e dalla diffusione della povertà.
Tenuto conto di ciò, quando si ipotizza di porre rimedio ai problemi del mondo contemporaneo, adottando una determinata forma di organizzazione politico-economica della società, occorre verificare se la forma organizzativa della società che si propone di sostituire a quella esistente risulta conforme alla soluzione dei problemi contemporanei.
Una riforma politico-economica dell’organizzazione sociale esistente, per essere desiderabile e realizzabile, deve poter consentire di risolvere, non solo i problemi periferici, ma anche quelli a livello unitario che, per loro natura, com’è noto, possono essere risolti solo in modo alternativo al mercato.
L’ordinamento politico, cioè l’organizzazione dello Stato, costituisce un contesto alternativo a qualsiasi ordinamento economico autodiretto per la soluzione di tutti i problemi che quest’ultimo non può risolvere, quali la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi pubblici, la ridistribuzione del prodotto sociale complessivo e la stabilizzazione dell’attività produttiva. Queste tre grandi classi di problemi richiedono infatti, pur in presenza della municipalizzazione dei mezzi di produzione o della conduzione su basi cooperativistiche dell’attività economica, un ruolo attivo ed insostituibile dell’organizzazione complessiva dell’ordinamento politico; richiedono, cioè, un ruolo attivo e complementare dello Stato rispetto all’autogoverno dell’attività economica da parte dei cittadini.
La municipalizzazione dei mezzi di produzione e la conduzione su basi cooperativistiche dell’attività economica, così come ipotizzate, rispettivamente, da Olivetti e da Mazzini, presentano anche un limite restrittivo riconducibile all’assunzione dell’ipotesi che sia possibile il pieno impiego della forza lavoro, o quanto meno che il fenomeno della disoccupazione sia solo temporaneo e congiunturale.
La realtà attuale concernente il funzionamento dell’ordinamento economico complessivo è ben diversa, nel senso che la disoccupazione si manifesta non più in termini congiunturali, ma in termini strutturali e irreversibili.
Ciò comporta che, a livello dell’ordinamento politico, il problema distributivo debba essere risolto in modo da tener conto anche dei fenomeni della disoccupazione e della povertà, nonché della necessità di garantire all’ordinamento economico una stabilità di funzionamento, idonea a garantire un reddito anche a chi non riesca a conservare la qualità di membro attivo del mondo municipalizzato dello Stato federale (Olivetti), o la qualità di membro attivo del mondo cooperativistico dello Stato unitario (Mazzini).
Riguardo alla soluzione del problema della disoccupazione strutturale all’interno di un’organizzazione sociale fondata su “segmenti economici alternativi alla logica dominante” dei quali parla Sapelli, il contributo delineato da James Edward Meade in “Agathotopia”, appare essere quello più efficace ed efficiente. Egli individua e descrive una forma di organizzazione sociale che, secondo le espressioni linguistiche da lui utilizzate, consente di realizzare, in sostituzione di un “luogo perfetto in cui vivere” (Utopia), un “buon posto in cui vivere” (Agathotopia); così, Meade delinea le modalità organizzative dell’ordinamento politico e di quello economico, fondate sull’erogazione (decisa su basi democratiche) ad ogni cittadino, indipendentemente dal proprio status occupazionale, di un reddito di cittadinanza incondizionato, sufficiente a garantirgli la possibilità di realizzare nella libertà il proprio progetto di vita.
Un siffatto ordinamento, inglobando le originarie intuizioni di Mazzini e di Olivetti, delinea un’organizzazione socialista della società, idonea a consentire la rimozione dei disagi del mondo globalizzato attuale. D’altra parte, la municipalizzazione dei mezzi di produzione, ipotizzata da Olivetti, e la conduzione su basi cooperativistiche dell’attività economica, ipotizzata da Mazzini, implicando per tutti i cittadini una partnership paritaria, sia alla proprietà, che alla gestione dei mezzi di produzione, legittima lo Stato, democraticamente espresso, ad effettuare una ridistribuzione del prodotto sociale complessivo, attraverso l’erogazione a tutti i cittadini di un reddito di cittadinanza incondizionato che, in quanto finanziato dalla partnership paritaria alla proprietà e alla gestione dei mezzi di produzione, ha la natura di un “dividendo sociale”, il cui scopo è appunto quello di porre rimedio a tutte le disfunzioni del mercato globale delle quali parla Sapelli.
Gianfranco Sabattini