A sessant’anni dall’apertura, cosa rimane del Concilio? Tutta colpa delle fazioni o delle ermeneutiche distorte? Sarebbe stato forse meglio fare un “mea culpa”.
Vaticano II. Avanti tutta. Non si torna indietro. La missione continua. La macchina ha bisogno solo di un assestamento. Che in gergo ecclesiale, significa: riforma. Ma sempre in coerenza con quello Spirito del rinnovamento e dialogo che ne costituisce la linfa.
Ma a sentir Francesco, o a vederne i frutti, più che di primavera della Chiesa, abbiamo assistito a un inverno delle anime; in dottrina e morale, e anche alla fine, a un fumo, quello di Satana che a detta di chi quel Concilio poi lo concluse (Paolo VI), penetrò nelle stanze della Chiesa. E permane.
Francesco indica i colpevoli. Non certo un atto di amore paterno, in quelle fazioni di destra (minoritaria e quasi evanescente ) e di sinistra (maggioritaria) – che si sarebbero combattute e si combattono a suon di interpretazioni o ermeneutiche non allineate, a quella ufficiale, così come già delineata dal papa emerito, “della continuità”.
Fendenti che però non colpiscono il bersaglio. E soprattutto non colgono la scaturigine occulta di questa crisi che, a mio modesto parere, risiede in una rappresentazione e presentazione ideologica del Concilio, che ne fa uno spartiacque od una ipostasi, da cui far principiare la stessa vita della Chiesa.
A riprova di ciò, l’occupazione nei posti-chiave della Curia (e non solo) di quella fazione che sta “accanto al mondo” e che nega diritto di cittadinanza a qualsiasi critica. E Francesco? Francesco, più umilmente, è il risultato del Concilio. La sua personificazione.
Ecco perché più che il fallimento ne afferma la validità nella continuità.
Antonello Cavallotto