Andrei Fursov
A causa della natura sociale del capitalismo e della sua scala globale, la crisi di questo sistema diventa una sorta di innesco, un fenomeno a cascata che mette in moto un meccanismo di crisi che va ben oltre non solo il capitalismo, ma anche i sistemi sociali in generale. Si è già scritto abbastanza sulla crisi della società moderna, sulle ideologie progressiste del marxismo e del liberalismo e sulle relative forme di organizzazione della scienza e dell’educazione – l’intera geocultura dell’Illuminismo – nonché sulla crisi della civiltà europea.
In quest’ultimo caso, va sottolineato che il capitalismo, soprattutto dopo il sistema-mondo europeo dei “lunghi cinquanta” del XIX secolo, cioè nel 1848-1867 (esattamente tra le rivoluzioni europee del 1848 e la Restaurazione Meiji in Giappone, tra il “Manifesto del Partito Comunista” e il primo volume del “Capitale”), trasformatosi in un sistema mondiale con l'”Occidente atlantico” come nucleo, ha iniziato a distruggere non solo le civiltà extraeuropee, ma anche quella europea, ottenendo risultati significativi in pochi decenni.
Inoltre, il capitalismo ha aggravato al massimo tutte le contraddizioni di questa civiltà, sia interne che con altre civiltà, che erano sopite prima della sua comparsa. Sebbene lo “scontro di civiltà” di Huntington sia un tipico “virus concettuale” il cui compito principale è quello di distogliere l’attenzione dalle contraddizioni reali, la crisi del capitalismo ha un potente aspetto di civiltà, per di più triplice: la crisi della civiltà europea; la crisi delle civiltà extraeuropee a causa dell’impatto del capitalismo su di esse, in primo luogo le sue strutture di vita quotidiana e la cultura di massa; e la crisi della civiltà terrestre nel suo complesso, a causa del carattere globale del capitalismo.
Nella crisi della civiltà europea, oltre al declino dell’alta cultura e al cambiamento dello stesso materiale umano europeo nel XX secolo, è necessario notare soprattutto la crisi del cristianesimo. Quest’ultimo è quasi morto. Il protestantesimo, avendo sostituito Dio con il Libro, si è quasi trasformato in un neo-giudaismo. Il cristianesimo non è immune né dal giudaismo né dal liberalismo.
La combinazione delle crisi del capitalismo, della civiltà europea (e del cristianesimo in essa) trova la sua quintessenza nella crisi (o nel completamento) del “progetto biblico”. Qualsiasi sistema sociale è un sistema di gerarchia e controllo, cioè la soluzione a un problema semplice: come tenere sotto controllo il piccolo uomo e come controllare il comportamento delle classi superiori e le loro relazioni con le classi inferiori per risolvere questo problema.
Per quasi due millenni il cristianesimo come forma di organizzazione sociale ed ecclesiastica, utilizzando il progetto di protesta-emancipazione di Cristo e allo stesso tempo mutandolo (ideologicamente – con l’aiuto dell’Antico Testamento, organizzativamente – con l’aiuto della Chiesa) e trasformandolo in un progetto biblico, ha fornito le basi ideologiche e religiose della gerarchia e del controllo prima nel Mediterraneo, poi in Europa (con la Russia – in Eurasia) e in America; strettamente legata al cristianesimo un’altra religione abramitica, l’Islam, ha svolto la funzione del progetto biblico per le zone più arretrate della regione.
Il progetto biblico cominciò a fallire abbastanza presto – a partire dalla separazione di Roma (cattolicesimo) dall’ortodossia per scopi politici; inoltre, la parziale nazionalizzazione e la parziale giudaizzazione del cristianesimo nella mutazione del protestantesimo significarono l’inizio di una profonda crisi.
Negli ultimi due secoli il ruolo di realizzazione del progetto biblico in generale è stato assunto da ideologie secolari di tipo progressista – liberalismo e comunismo – e il comunismo si è rivelato la stessa limitazione sistemica del progetto marxiano di quello biblico – di quello cristiano, con tutte le conseguenze che ne derivano.
La crisi sistemica del capitalismo ha coinciso con la crisi delle versioni secolari del progetto biblico e con l’esaurimento di questo progetto nel suo complesso. Ciò che ha funzionato nella tarda antichità (cioè fino all'”impero” di Carlo Magno), nel Medioevo, e peggio ancora nell’Antico Ordine, ha cessato di funzionare nella Nuova Era. All’ordine del giorno c’è la creazione di un nuovo progetto di controllo e organizzazione; solo con il suo aiuto – a parità di altre condizioni – sarà possibile rimettere in sesto il “secolo dislocato” e superare la crisi. La doppia questione è chi proporrà tale progetto – le classi superiori o quelle inferiori e, grosso modo, chi “dormirà” con esso, cioè lo metterà al servizio dei propri interessi.
Possiamo già vedere tentativi di tale proiezione – meno consapevole e più religiosa alla base, più consapevole e più laica ai vertici. L’Islam radicale nel mondo musulmano e il pentecostalismo in America Latina, che sta acquisendo le caratteristiche di una religione, se non separata dal cristianesimo, comunque simile, sono un’altra “utopia”, per usare il termine di K. Mannheim. Dall’alto, è un progetto dei neocons americani (“globofascismo”), concepito per approfondire e conservare per sempre la polarizzazione socio-economica della società tardo-capitalista (“20:80”) e per trasferire questa forma essenzialmente castizzata al mondo post-capitalista.
È altamente simbolico che molti neocon siano ex di sinistra e che alcuni siano semplicemente dei trotzkisti passati attraverso la scuola “di destra” di Leo Strauss e abbiano letto Platone.
Va ricordato che dei tre progetti generati dal ramo soggettivo del processo storico (antichità – feudalesimo – capitalismo), due erano di protesta-emancipazione – quello di Cristo e quello di Marx – e uno, il primo, quello di Platone, era conservatore, e per certi aspetti persino restaurativo-reazionario. Tuttavia, entrambi i progetti emancipatori vennero rapidamente fatti propri da alcune forze e organizzazioni sociali e cominciarono a essere utilizzati per scopi ben diversi da quelli orientati dai loro “progettisti generali”; ciononostante, il potenziale emancipatorio rimase in essi, e questa contraddizione divenne centrale sia nel progetto biblico che in quello comunista.
Il progetto della casta-aristocratica di Platone era una reazione alla crisi e al declino del sistema della polis, al crollo (e in parte allo smantellamento consapevole) della democrazia della polis. La reazione di Platone fu quella di fermare, surgelare il cambiamento sociale attraverso la rigida conservazione della struttura sociale, la sua gerarchizzazione. Il progetto di Platone nel suo complesso non si realizzò, il mondo antico uscì dalla crisi sulla base del progetto romano (modifica dell’antico progetto egizio – alla fine il tentativo fallì) e del progetto di Cristo (trasformato in quello biblico – classica trasformazione neutralizzante del progetto protestante-emancipatorio in quello di controllo-gerarchico, il tentativo riuscì); tuttavia, alcuni elementi del progetto di Platone sono presenti in quello biblico e in quello comunista in forma ridotta.
Il progetto platonico, in gran parte, è oggi chiaramente “in sintonia” con il “tallone di ferro” dell’aziendalismo tardo-capitalista e delle sue strutture e club sovranazionali, chiamati senza successo “quinte mondiali” o “governo mondiale”, impegnati su scala globale nella risistemazione e nell’abbattimento dell’umanità nelle condizioni di crisi/demolizione della democrazia borghese, così come della politica e della statualità. È stata la corporatocrazia a portare il “progetto biblico” alla sua logica fine, globalizzandolo (il tragico finale del progetto è l’avventura americana in Iraq, in Medio Oriente; il progetto finisce dove è iniziato) e trasformando la repubblica americana in un “neo-impero” (Chalmers Johnson).
Tuttavia, nel portare il capitalismo al traguardo, la globalizzazione si rivela una vittoria di Pirro per la corporatocrazia – a quanto pare storicamente l’ultima fazione “iperborghese” della borghesia. La globalizzazione è una vittoria di Pirro per la corporatocrazia, la fazione più giovane e predatoria della borghesia, che è salita al potere con l’ultima guerra mondiale, ha mostrato per la prima volta i denti rovesciando il governo di Mossadeq in Iran nel 1953, ha messo il suo primo presidente, Reagan, alla Casa Bianca nel 1981, e nel 1991 ha sconfitto l’URSS “promettendo” di incorporare almeno una parte della nomenklatura nei suoi ranghi e di dare agli altri “un barile di marmellata e un cesto di biscotti”. Tuttavia, il trionfo della corporatocrazia (“iper-borghesia” – D. Duclos) sarà di breve durata; molto probabilmente, sopravviverà brevemente alla classe di cui si nutre – la classe media.
La corporatocrazia è “affilata” per l’espansione esterna, per l’estensività globale; la globalizzazione è stata allo stesso tempo la sua “affilatura” sociale, il suo strumento e il suo obiettivo. Ora l’obiettivo è stato raggiunto e la domanda è: la corporazione è adatta come strato per spostare le frecce socio-economiche dal contorno esterno a quello interno, dallo sfruttamento-distruzione economica del Sud allo sfruttamento interno, dove, tra l’altro, è contrastata dagli stessi nativi del Sud, ma a differenza della popolazione sociale bianca atomizzata, organizzata in comunità e clan e in grado di rispondere alla pressione delle autorità e, a sua volta, di fare pressione sia sulle autorità che sulla popolazione bianca? Oppure inibirà questo processo in tutti i modi possibili? Otterremo la risposta a questa domanda, o almeno accenni di essa, osservando, innanzitutto, la lotta per il potere nella classe superiore americana. E, naturalmente, è necessario tenere conto dell’impatto su questo processo di quello che Ch. Johnson ha chiamato “blowback”, cioè la reazione del mondo alla pressione esercitata per mezzo secolo dagli Stati Uniti (cfr. la situazione dell’Impero romano dopo Traiano).
In generale, nonostante la superficialità delle analogie storiche, possiamo notare che l’attuale situazione dell’Occidente (il Nord) è un neo-impero (peraltro, nel senso che T. Hardt e A. Negri, da un lato, e C. Johnson, J.-C. Ruefin, E. C. Ruefin e E. B. Buchanan, dall’altro, danno a questo termine). K. Rufen, E. Todd, ecc.) ricorda qualcosa dell’Impero romano: imbarbarimento sociale e culturale-psicologico interno unito al declino economico e alla pressione esterna dei barbari, che essi stessi avevano alimentato per diversi secoli (come scrisse N. Korzhavin in un’occasione completamente diversa). Korzhavin scriveva: “essi … Ma questa è per molti versi la situazione del Nord e del Sud negli ultimi decenni, con tutti i giochi del multiculturalismo e dell’altro cultural-multiculturalismo e del politicamente corretto, e per quanto riguarda i rapporti tra i servizi speciali “del Nord” e i fondamentalisti islamici “del Sud” con tendenze terroristiche, questo è solo un colpo al cento per cento, per così dire, “vai, acciaio avvelenato, a destinazione”).
Lo schema di A. Toynbee Jr. secondo il quale le civiltà periscono a causa della pressione combinata del “proletariato interno” e del “proletariato esterno”, è molto vicino all’attuazione in Occidente (il Nord), i cui padroni e la cui popolazione non sembrano avere una strategia a lungo termine per combattere questa minaccia.
Nel libro “L’Impero e i nuovi barbari: il divario Nord-Sud” (Parigi, 1991), J.-C. Ruefin esamina i tre Paesi dell’Occidente (il Nord). C. Rufin considera tre strategie (e, di conseguenza, tre varianti del futuro) del Nord rispetto al Sud: 1) “strategia di Kleber” – tentativo di occidentalizzare il Sud – fallimento; 2) “strategia di Ungern” – tentativo di alcune forze del Nord di sollevare il Sud contro il Nord e riportare così il Nord alla tradizione – finora non attuata, la strategia è piuttosto chimerica, perché in caso di attuazione, la prima cosa che accadrà è che il Sud non sarà in grado di combattere contro il Nord.
In caso di attuazione, la prima cosa che verrà distrutta saranno i resti della tradizione europea, e al suo posto apparirà qualcosa come la “Moschea di Nostra Signora di Parigi”; 3) “strategia di Marco Aurelio” – tracciare una “limesis”, una linea che tagli il Sud dal Nord; questo non è più possibile, il Sud è già nel Nord, una grande percentuale della popolazione delle megalopoli del Nord sarà composta da persone del Sud – nous voilà!
Tuttavia, c’è una differenza essenziale tra la situazione attuale dell’Occidente (il Nord) e l’Impero Romano: gli abitanti dell’Impero Romano e i barbari appartenevano principalmente alla stessa razza, la razza bianca. Nell’Occidente moderno “Impero” e “barbari” appartengono a razze diverse. La crisi del sistema che ha causato la crisi demografica nel Terzo Mondo e la migrazione di massa dal Sud al Nord, che sta cambiando non solo la composizione etno-religiosa ma anche quella razziale della popolazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, si sta trasformando in una crisi non solo della civiltà europea ma anche della razza bianca.
Ciò significa che le battaglie sociali della grande svolta non avranno solo aspetti civili e religiosi, ma anche razziali, cosa che non è mai avvenuta nelle precedenti megacrisi.
Un uomo bianco nutrito, anziano, socialmente atomizzato, borghese, quasi cristiano, politicizzato e multiculturale dell’Europa occidentale e del Nord America, da un lato, e un uomo affamato, giovane, aggressivo, antiborghese, non bianco, scuro (spesso non solo in senso letterale, ma anche figurato) con forti valori collettivi, dall’altro, sono il vero futuro “luminoso” dell’Occidente. Questo non è solo “il tramonto dell’Europa”, ma il tramonto dell’Europa nel buco della Storia senza possibilità di uscirne. Se si tiene conto del fatto che gli “occidentali” hanno dimenticato come si lavora – hanno perso l’etica del lavoro – e come si combatte – hanno perso la capacità di combattere – la prospettiva appare ancora più cupa.
“I nostri avidi fratelli europei”, scrive S. Helemendik nel suo libro allegro e allo stesso tempo spaventoso (specificità della cultura russa della risata) “Noi… Loro” (Bratislava, 2003), “non hanno strumenti per cacciare gli stranieri albanesi. Gli albanesi, invece, hanno strumenti sufficienti: eroina, carne bianca, racket. […] i nostri fratelli ben pasciuti sono diventati stantii. Sembra indegno per loro portare i piatti nei ristoranti e guidare i tram. E ai nostri fratelli neri e gialli, lavare i piatti a Vienna o a Monaco sembra una cosa onorevole. Ecco, questo è il tramonto promesso dell’Europa”. E – conclusione-coda: “I nostri fratelli europei, ben nutriti, hanno già perso tutto! Ho ripetuto questa conclusione molte volte mentre camminavo lungo il viale principale di Francoforte chiamato “Zeil”. Hanno già concluso la loro esistenza nella storia, non esistono più”.
Crudo, ma preciso.
Nelle nostre riflessioni sulla crisi, sull’epoca della svolta, siamo scesi successivamente dal livello del sistema sociale a quello della razza. Ma anche questo non è ancora il fondo dell’abisso, che potrebbe aprirsi con la crisi del sistema capsulare. Quest’ultima potrebbe mettere all’ordine del giorno la questione del genere Homo. Poiché la crisi avverrà in mezzo alla lotta di una popolazione in crescita per le risorse in diminuzione (compresi cibo e acqua), solleverà la questione del declino della popolazione – una questione sociobiologica, se non biosociale.
L’Homo ci è già passato durante la crisi del Paleolitico superiore e l’ha “superata” (con enormi perdite) in 15-20 mila anni. A quel tempo, però, la crisi aveva un carattere sommamente locale, non globale – non esisteva un’umanità planetaria unificata. Inoltre, la Terra non era piena di centrali atomiche, di imprese con produzioni nocive, di armi nucleari, biologiche, chimiche e di altro tipo.
Tuttavia, come dimostra l’esempio di Hutu e Tutsi, il genocidio regionale può essere organizzato con l’aiuto di armi comuni, armando bambini di 12-14 anni con AKM.
Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini
(Fonte: https://t.me/ideeazione)