Maurizio Nari
Per accedere a ciò che è in comune, al rapporto sociale libero dalla confusione derivata dalla lontananza intrinseca, l’uomo si organizza in comunità, e tali comunità per esistere devono essere riconosciute come momento autonomo dell’agire collettivo. La comunità è un concetto che comprende numerose realizzazioni concrete: dalla famiglia, fino allo Stato inteso come aggregazione politica nazionale o pluri-nazionale, fino all’universalità, che è la comunità umana tutta.
Affinchè vi siano le condizioni per la coscienza di un universalismo sostanziale (e non quello procedurale che imperversa oggi dietro la malcelata retorica imperialista della democrazia formale per tutti), ovvero il senso di un destino comune a tutta l’umanità, è altrettanto necessario che l’uomo realizzi il proprio essere sociale in contesti più prossimi quali comunità di produzione, di mestiere, cittadine, locali, regionali ed infine nazionali-statuali. Tali comunità progressivamente integrate nella più vasta totalità della comunità politica (lo Stato o altre forme comunitarie di raccolta di istanze collettive tipiche di altre tradizioni) possono essere realmente concepibili solo laddove si pongano le premesse per il comunismo o un socialismo comunitario, inteso come divisione solidale dei beni e delle ricchezze. Altrimenti le comunità intermedie (dalla famiglia alla nazionalità interna ad uno stato pluri-etnico) possono essere il trampolino di lancio per l’esercizio del più subdolo potere lobbistico ammantato da retoriche falso-comunitarie.
La trasformazione del modo di produzione e dei rapporti di proprietà diviene condizione necessaria per l’autonomia ontologica delle comunità e per la loro liberazione dalla parzialità cui sono condannate laddove dominate da una logica conflittiva inter-comunitaria in cui la comunità può divenire mero gruppo di pressione particolare.
Lo Stato (che può essere ugualmente chiamato comunità politica ontologicamente distinta dagli individui e inclusiva delle micro-comunità di conoscenza, di produzione), è a mio avviso da intendersi come elemento comunitario etico totale, come comunità delle comunità, nel senso di luogo di risoluzione della contraddizione di cui parlavo all’inizio: quella permanente, data dalla distanza del rapporto sociale tra uomo e uomo. Per tale ragione, posto che ritengo prioritaria su tutto la lotta allo Stato in quanto espressione degli interessi di una società classista ( come nel capitalismo), credo che lo Stato in sé, come bene comune, oltre la sua declinazione storica particolare, non sia altro che lo spazio autonomo di decisione democratica ed etica di una collettività ( cioè fondato su un razionale giudizio comunitario soppesato al di fuori dell’espletazione spontanea ed immediata della relazione produttiva, anche qualora essa divenga di carattere cooperativo superando la logica mercantile conflittuale).
Lo Stato diviene momento autonomo (cioè comunità politica partecipativa) al di fuori del modo di produzione capitalistico e all’interno del modo di produzione comunistico-cooperativo, mantenendo una funzione di autorità riconosciuta a carattere democratico-partecipativo sostanziale.
Se tale autorità centrale democratica e partecipativa la si vuole chiamare Stato o organo comunitario, la sostanza della questione non cambia: l’elemento dirimente è il credere o il non credere che sia necessario un momento ben definito di riflessione centrale organizzativa e normativa che ruota attorno ad una comunità a sua volta suddivisa in molteplici comunità definite secondo criteri di autocoscienza e di appartenenza reale (in quanto a conoscenza fra i membri e presenza nel territorio).
La questione dell’affermazione della necessità della comunità politica definita, naturalmente, deve essere vista non come riferimento allo Stato qual’ è oggi o qual’ è stato nel comunismo storico realmente esistito, ma come semplice constatazione dell’importanza di un’etica comune per la comunità, che, attraverso la diretta partecipazione dei suoi membri, pone sovra di sé, e non fuori da sé, una struttura decisionale permanentemente dialogica in cui l’essere umano può, dall’alto della razionalità solidale, prendere decisioni inspirate al criterio del bene comune. Dunque Stato nel senso di totalità, non certo nel senso di gestione classista degli affari economici, né tanto meno nel senso di organo repressivo poliziesco.
E’ abbastanza chiaro che lo Stato, nell’economia capitalistica non ha alcuna speranza di essere etico: può certo assumere connotati più o meno conformi all’essere umano secondo il grado di soggezione all’economia tecnocratica ( e in proposito ritengo doverosa un’equilibrata valutazione dei cambiamenti e delle variabili possibili anche all’interno del modo di produzione capitalistico, senza fare di tutta l’erba un fascio secondo la logica manichea volgare); ma mai, in quanto subordinato al potere economico, potrà svolgere in libertà la sua vera funzione comunitaria di organo decisionale puro, scevro da condizionamenti brutali.
Negare lo Stato in sé (o la comunità politica come spazio etico e decisionale strutturato e distinto), per converso, diviene semplice ammissione di autosufficienza degli uomini riuniti in un contesto autorganizzativo libertario e diffidenti del potere comune come forma di emanazione comunitaria partecipata. Uomini, che liberi dalle catene del capitale e delle sue sovrastrutture ideologiche senza accettare l’auto-consacrazione per sé di un momento superiore di decisione comune della vita comunitaria, si muovono come atomi ormai non più ispirati dall’ingannevole mano invisibile di Adam Smith, ma dalla nuova mano invisibile dell’estrinsecazione spontanea del proprio essere sociali liberati.
Può sembrare un giudizio troppo severo, ma non lo è.
La comunità intermedia, che si struttura dalla naturale vicinanza e appartenenza degli individui nel reale svolgersi della vita, intesa come comunità familiare, di professione, territoriale, nazionale, diviene elemento decisivo di raccordo tra la comunità delle comunità ( lo Stato etico-politico partecipativo) e l’individuo, fuori da ogni astrazione teorica di un comunismo inteso come salto d’ogni intermediazione, fuori cioè dall’idea di un comunismo estraniato dal rapporto sociale prossimo all’individuo: un salto nel vuoto in cui cittadino e Stato divengano i due unici referenti ideali della costruzione di comunità, in un mostruoso e siderale abbraccio imponderabile.
Se si nega la comunità intermedia come reale veicolo della socialità, come momento definito dell’essere in comune, si può passare dal culto dello Stato politico estraniato, al conseguente culto simmetrico ( secondo il processo di “delusione” – negazione) dell’individuo estraniato liberale, ovvero dell’individuo inesistente, utile solo per scrivere manuali di microeconomia; la comunità intermedia diviene nel contesto della negazione etica liberale, mera entità parziale ( poiché unita al suo interno, ma disunita e disarmonica rispetto ad una totalità anarchica e caotica ed invisibile), momento compensativo della residua socialità presente ( il culto della comunità intermedia scissa dalla totalità è un motivo costante e fondamentale della retorica contemporanea alla ricerca di una continua compensazione della negazione generale dell’etica comune e della solidarietà, attraverso l’affermazione di una micro-etica e di una micro-solidarietà spontanea, elettiva e volontaristica).
La comunità intermedia, invece, deve essere vista come movimento reale di vita che si innesta virtuosamente nella comunità politica inclusiva, come luogo di realizzazione attiva e cosciente della solidarietà.
E tale comunità intermedia può essere libera dalle catene della parzialità e della conflittualità solo laddove cessi di porsi come spazio di interesse particolare e conflittivo, per divenire elemento naturale di integrazione ed unità nella differenza con le altre comunità, in un’aggregazione comunitaria totale più vasta.
Esattamente come nel rapporto tra individuo e comunità, il rapporto tra comunità intermedia e comunità politica totale si fonda sulla distinzione nell’unità, respingendo la furia del dileguare della fusione arbitraria utopistica da un lato, e respingendo la segregazione separatista dell’indipendenza, dall’altra; declinandosi dunque come entità autonoma e compresente.