Antonio Catalano
All’affacciarsi del nuovo anno scolastico riprende vigore l’idea della cittadinanza attribuita tramite frequenza di un certo numero di anni (cinque) nella scuola, il cosiddetto jus scholae.
Una proposta sostenuta da PD, Avs, 5 stelle e FI, mentre FdI e Lega esprimono ritrosia.
Ancora una volta si “gioca” sul tema immigrazione con una superficialità che impedisce di mettere a fuoco la sostanza della questione.
La demagogia utilizzata dai sostenitori di questo provvedimento lascia intendere che i poveri bambini figli di immigrati siano lasciati a se stessi, privati dei diritti elementari, senza dare di conto che in Italia si concede abbondantemente la cittadinanza agli stranieri e i bambini che nascono qui non subiscono nessuna discriminazione, godendo invece di ogni diritto.
Un uso irresponsabile di una questione enorme, dietro il quale si cela l’interesse del capitale neo liberista di favorire un’immigrazione irregolare e caotica, le cui conseguenze sociali vanno a ricadere esclusivamente sulla qualità di vita dei ceti popolari.
Perché, a proposito di scuola, i figli delle classi agiate frequentano scuole “protette” ed esclusive.
Il capitale globalista promuove, non certo per intenti umanitari, un’inclusività declinata nel senso liberista di libera circolazione di merci capitali e persone, per questo i suoi corifei decantano le magnificenze di un mondo senza frontiere.
Ma noi sappiamo bene che flussi migratori indiscriminati hanno perseguito l’unico scopo di: a) deprezzare la forza lavoro autoctona; decontrattualizzare il rapporto di lavoro; c) introdurre una forte competizione a ribasso tra lavoratori residenti e immigrati; d) dequalificare il lavoro; e) svuotare di preziose energie giovanili i paesi generatori dei flussi migratori, così da poterli meglio controllare e sfruttare. Con l’inevitabile conseguenza di aumento del disagio sociale negli ambienti popolari, paradossalmente accusati dai liberal progressisti di insensibilità se non di vero e proprio razzismo.
Insomma, un bel po’ di piccioni con una sola fava.
Lo jus scholae è la trovata furbesca e subdola che si muove nell’orizzonte della libera circolazione come intesa dal neo liberismo.
Subdola perché utilizza il tema dei minori, presuntivamente discriminati.
Lo jus scholae presuppone il fatto che la frequenza scolastica diventi condizione per l’ottenimento della cittadinanza, a prescindere dal raggiungimento del diciottesimo anno.
Chiarito il quadro in cui si agita questa richiesta, poniamoci ora la domanda: “questa” scuola promuove davvero la cittadinanza?
A questa domanda purtroppo bisogna rispondere negativamente.
L’istituzione scolastica, oggi, non rappresenta affatto il luogo della costruzione del cittadino. Essa rappresenta invece il luogo dell’adeguamento forzato dell’individuo alle linee guide del credo globalista.
Basti considerare il fatto che sia diventato curriculare l’insegnamento della davosiana Agenda 2030, con tutta la sua stucchevole retorica ideologica sulla Sostenibilità declinata in tutte le salse.
La scuola odierna (da un bel po’ di anni ormai) non rappresenta più il luogo dell’“istruzione” (parola ormai considerata desueta), ma quello dell’apprendimento di “competenze”.
Competenze che hanno sostituito i contenuti disciplinari.
Ci si accorge del baratro culturale coltivato nella scuola di ogni ordine e grado quando si finge di stupirsi del fatto che i giovani non sappiano rispondere alle domande più semplici, che siano di geografia o di italiano o di storia o di matematica.
Nella scuola contemporanea è tutto un insistere su percorsi preconfezionati, con tanto di “mappe concettuali”, test, griglie… cosa che, inevitabilmente, pone in essere il superamento della stessa figura dell’insegnante.
A che serve infatti un insegnante quando tutto è deconcettualizzato, semplificato, banalizzato?
Chi conosce la realtà della scuola sa bene che essa non garantisce vera educazione alla cittadinanza, in quanto non favorisce ai figli degli immigrati l’integrazione nel tessuto culturale del paese ospitante ma, al contrario, ne sancisce l’estraneità.
Si può davvero includere solo se non si rinuncia alla propria identità, in questo caso culturale.
Quante volte – troppe – mi sono trovato di fronte ragazze e ragazzi pakistani, cinesi, filippini, peruviani, maliani… del tutto incapaci di comprendere una semplice frase, figuriamoci poi un concetto relativo alla disciplina!
In questi casi sapete come avviene l’inclusione?
Abbassando, diciamo pure eliminando, non dico la qualità dei contenuti, ma gli stessi contenuti.
L’acuto Boni Castellane coglie bene il punto.
Qualche giorno fa scriveva: «Pensare che un percorso scolastico conferisca di per sé i fondamenti culturali, civili e linguistici sufficienti a rendere una persona un cittadino integrato in un contesto nazionale, significa credere, più o meno coscientemente, più o meno volontariamente a un equivoco». Ancora: «Far credere che invece sia ancora così, che una persona proveniente da qualsiasi parte del mondo per il solo fatto di frequentare la scuola per un certo numero di anni diventi automaticamente italiano, significa confondere il trascorrere del tempo in un luogo con la reale acquisizione di conoscenze e di valori».
La scuola è diventata una palestra nella quale si rincorrono progetti sponsorizzati e finanziati (con tutta la corruzione che ne deriva in termini di accaparramento dei fondi e della loro distribuzione a un corpo docente purtroppo spesso complice) dall’Unione europea.
Progetti che tutti, irrimediabilmente, si rivestono di propositi etico-sociali (razzismo, ciberbullismo, sessismo, ambientalismo, sostenibilità di ogni tipo…) apparentemente giusti, ma che ripropongono pari pari i temi cari all’agenda liberal globalista.
Invertire la rotta.