di Fabio C. Maguire
David Ignatius scrive sul Washington Post di una dottrina politica, impiantata da Biden e Blinken, che indirizzerà, anche nel futuro, la politica estera americana.
Secondo l’autore, “si stanno fissando le fondamenta in modo che un prossimo presidente, altro da Biden, sia costretto a non deviare dalle direttrici attuali.”
Washington dovrebbe mantenere invariato il rapporto con la Cina, proseguendo su “binari conflittuali” e preservando il rischio di un conflitto aperto.
Con la Russia il confronto non si esaurirà e dovrà essere sostenuto attraverso l’ausilio costante a Kiev.
La Casa Bianca dovrà garantire un’assistenza sostenuta, dissuadendo la Russia dall’illusione di poter “sopravvivere all’Ucraina.”
E anche la terminologia utilizzata da Ignatius è indicativa del presente livello di scontro, che fa della crisi in Europa orientale una questione esistenziale per gli Stati Uniti.
Infatti, “a causa della retorica iperbolica, atta a sostenere in tutti i modi Kiev, l’opinione pubblica è stata indotta a pensare che l’esito del conflitto non riguardi solo Kiev, ma abbia una posta in gioco esistenziale, per la sicurezza degli Stati Uniti, per l’intero ordine globale e persino per la stessa democrazia.”
Discostarsi da queste direttrici politiche significherà per Washington “virare drasticamente” e allontanarsi dalla linea che vede la sopravvivenza della democrazia e il “futuro della pace globale” legato alla sconfitta russa.
Questi discorsi massimalisti sono adesso il “pensiero dominante del panorama politico statunitense.”
D’altronde la Casa Bianca si era spesso servita del paradigma securitario per accaparrarsi il consenso popolare e legittimare le proprie guerre di dominio.
Quel che viene presentato è una minaccia imminente all’esistenza stessa degli Stati Uniti, minaccia che però loro stessi hanno creato e custodito.
Secondo Branko Marcetic, sembra di percepire “echi della teoria del dominio dell’era della Guerra Fredda.”
Ad essere messa in discussione è infatti anche la “credibilità e il prestigio” degli Stati Uniti e della NATO.
La paura di perdere prestigio e credibilità è stato uno dei fattori chiave “per il perdurare del coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam, ma anche in Iraq, Afganistan e in altre guerre.”
Anche le prossime elezioni presidenziali spingono verso questa direzione.
Se una grossa parte della politica americana si è espressa contraria e a favore del disimpegno, i democratici perseverano in tale posizione, “costringendo Biden a non retrocedere se vuole vincere.”
Ma anche un vittoria russa potrebbe causare seri problemi per l’attuale Presidente americano, un risultato che non verrebbe perdonato dall’elettorato democratico.
Alla necessità di mantenere saldo il proprio impegno in Ucraina, Biden deve sommare anche la costante e rinvigorita presenza dell’esercito polacco al confine con la Bielorussia.
“Una guerra prolungata comporta maggiori possibilità di escalation, che potrebbero costringere i paesi NATO a decidere se mantenere o meno i loro impegni relativi all’Articolo V”.
E se l’inizio dell’operazione speciale avviata dalla Russia aveva in prima battuta ricompattato il fronte interno dell’Alleanza, adesso, dopo l’esito fallimentare della controffensiva ucraina, si iniziano a intravedere le prime crepe e a delinearsi i primi blocchi.
É spuntata l’idea del capo dell’ufficio del Segretario Generale, Stian Jensen, di risolvere la crisi con la rinuncia ucraina a parte dei suoi territori in cambio dell’adesione alla NATO.
Questa soluzione era stata avanzata, a metà del mese scorso, anche dall’ex consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovich, che aveva confermato che se ne stava parlando, seppur sottotraccia.
La situazione diverrà progressivamente sempre più ostica per Washington perché fare dell’Ucraina il Vietnam della Russia non sembra un’idea plausibile.
Kiev, come illustrato anche dai giornali occidentali, si è clamorosamente bloccata sul campo, merito delle ingegnose linee difensive russe e dell’enorme errore di calcolo dell’Occidente collettivo che aveva dipinto la Federazione Russa come una nazione allo sbando, fortemente indebolita e facile da battere.