L'Italia Mensile

IL COMUNITARISMO

di Maurizio Neri

Riflessioni e proposte per promuovere il dibattito.

Questo saggio vuole contribuire a delineare i tratti del pensiero comunitarista inserendosi nel discorso iniziato nelle pagine di Comunitarismo qualche anno addietro in due diversi saggi.

1 I due articoli in questione rappresentano una importante e lucida ricostruzione delle varie influenze del pensiero comunitarista italiano e riescono a cogliere come i termini «comunità» e «comunitarismo» siano stati utilizzati dalle più eterogenee forze politiche a dai più diversi Autori.

Ritengo però che il volersi rifare ad analisi ed elaborazioni fatte da altri o il voler ricondurre il proprio agire politico a quello di movimenti del passato rappresentino entrambi un limite.

Ecco allora che emerge la necessità di tentare di formulare in positivo che cosa è il comunitarismo.

Se ci soffermiamo sul significato della parola «comunità», ci accorgiamo che essa è riconducibile, in definitiva, ad un duplice senso: ciò che è in comune ed essere-in-comune.

Se vogliamo, possiamo considerare ciò che è in comune come l’oggetto materiale del vissuto, la comunità stessa o, più precisamente, tutte le sue componenti che devono essere messe in comune.
L’essere-in-comune rappresenta invece la modalità di esistenza del libero individuo che partecipa direttamente, insieme agli altri, a ciò che è in comune.

Comunitarismo e lavoro

Parlando della prima categoria – cioè di ciò che è in comune – vorrei analizzare brevemente quali sono gli elementi di una comunità che considero essere in comune.

Il primo elemento è senza dubbio il lavoro.
Ma, per chiarire il ruolo del lavoro in comune, bisogna innanzitutto capire quale è la critica delle dinamiche politico-economiche che riguardano l’ambito lavorativo ed essere coscienti di quali ostacoli intellettuali e materiali occorre superare.

In questo caso, può venire in nostro aiuto il buon vecchio Marx.

«Immaginiamo un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale»; 2 che decidano insieme quale parte del loro prodotto complessivo debba servire a sua volta da mezzo di produzione e con quali scopi, e quale parte vada consumata come mezzo di sussistenza dai membri della comunità. Immaginiamo anche (come voleva fare la Comune di Parigi del 1871) che al posto del sistema capitalista «delle associazioni cooperative unite debbano regolare la produzione nazionale secondo un piano comune».3

Questo vuol dire che i produttori devono impadronirsi dei mezzi di produzione, rovesciando i capitalisti. E vuol dire anche che essi devono rovesciare i concetti dell’economia politica, quell’abitudine quotidiana che ci fa apparire ovvio che i rapporti fra persone siano rapporti fra cose, che produrre sia uguale a produrre merci.
Se i produttori controllano la produzione, cioè se la regolano in anticipo decidendo cosa e quanto produrre, quanta parte del lavoro sociale dedicare ad ogni articolo in relazione all’estensione del corrispondente bisogno, i prodotti del lavoro non diventano merci, non vengono venduti.

Non si produce più valore, ma valori d’uso, beni per determinati scopi.
L’abolizione della forma di lavoro capitalista, cioè come lavoro astratto che crea valore, ha delle immediate ripercussioni anche dal punto di vista politico. Alla morte del valore corrisponderà la fine della gestione indiretta, della politica separata: «quando tutta la produzione sarà concentrata in mano degli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico».4

Alla sovranità popolare espressione individuale dei cittadini che, separati da dove operano, non possono nulla nel meccanismo economico, subentra «l’autogoverno della comunità», in cui la politica diventa «amministrazione delle cose», controllo sulla produzione. E anche controllo sul proprio sviluppo, perché solo nella comunità può essere superata la divisione del lavoro: «solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale […].

Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa».5

Comunitarismo e questione nazionale

Un altro importante elemento che è in comune consiste in quel complesso di usi, tradizioni, lingue, modi di vivere, modalità di approccio con il territorio e tipologie di sfruttamento di quest’ultimo che chiamiamo «nazione».

Il sentimento nazionale o nazionalitario è la prima scintilla, è il primo abbozzo embrionale che, sebbene oggi sia avvertito solo inconsciamente, permette agli strati popolari di sentirsi parte di qualcosa, di afferire ad una comunità.

Per il pensiero comunitario la «nazione» non è qualcosa di imposto ossia sovrastrutturale alla comunità, ma consiste nello stato aggregativo della comunità stessa: è proprio l’elemento nazionalitario che è oggetto della comunità e non il contrario, perciò lo considero come colonna portante di ciò che è in comune.

A questo punto occorre ribadire, ancora una volta, la differenza abissale che c’è tra nazionalitarismo (o elemento nazionale che è in comune) e nazionalismo.

Il primo è stato definito e tratteggiato brevemente all’inizio del paragrafo; il secondo, invece, è quell’ambizione sciovinista ed espansionista, propria di uno Stato forte che vuole ampliare la sua sfera di dominio al di fuori dei propri confini.

Il nazionalismo non ha limiti, non ha misura: è incontinente. Tale visione presuppone la presunzione di superiorità di uno Stato nazionalista.

Tutti coloro che ragionano con la loro testa e che non hanno pregiudizi si renderanno conto della differenza tra questo nazionalismo e il nazionalitarismo.

Un’altra riflessione che bisogna fare è quella che il nazionalismo, in ultima analisi, è la negazione delle nazioni e delle loro differenti espressioni. Infatti, se la massima espressione del nazionalismo è l’impero (impero americano esteso su tutto il globo), questa è anche la massima espressione dell’omologazione e della negazione delle differenze culturali all’interno di esso.

I comunitaristi si oppongono ed avversano fortemente il «nazionalismo militante borghese», infatti «la borghesia di tutte le nazioni […] sotto la parola d’ordine della “cultura nazionale” persegue di fatto la divisione degli operai, l’indebolimento della democrazia, e realizza transazioni commerciali con i fautori del servaggio vendendo i diritti e la libertà del popolo».6

In questo senso i comunitaristi dovrebbero abbracciare «il programma nazionale della democrazia operaia: non concedere il minimo privilegio a nessuna nazione e a nessuna lingua; risolvere il problema dell’autodecisione politica delle nazioni, cioè della loro separazione statale, in modo completamente libero e democratico; promulgare una legge generale dello Stato, in forza della quale ogni disposizione che assicuri in qualche modo un privilegio a una delle nazionalità, che violi la parità giuridica delle nazioni o i diritti di una minoranza nazionale, venga dichiarata contraria alla legge […] e che si prendano sanzioni penali contro chi cerchi di applicarla».7

«Nel formulare la parola d’ordine della “cultura internazionale della democrazia e del movimento operaio mondiali” noi prendiamo da ogni cultura nazionale soltanto i suoi elementi democratici e socialisti, e li prendiamo soltanto e assolutamente in antitesi alla cultura borghese, al nazionalismo borghese di ogni nazione».8

Inoltre, l’elemento nazionale che è in comune è perfettamente compatibile con l’internazionalismo di classe, che considero come rapporto tra comunità nazionali basato sulla solidarietà e l’appoggio reciproco.

Bisogna riflettere sul fatto, infine, che il nazionalitarismo è l’unica difesa che una comunità può opporre alla globalizzazione omologante.

Comunitarismo e autogestione

Un aspetto che viene spesso trascurato, e che tuttavia riveste un ruolo centrale, è quello dell’organizzazione e della gestione pubblica dei servizi e dei beni sociali della comunità. Il problema è conciliare il bisogno di servizi comunitari efficienti, regolari e funzionali con la legittima gratuità degli stessi. Questi importanti elementi in comune comprendono la scuola, la sanità, i trasporti, le distribuzioni idrica ed elettrica, eccetera, che devono essere gratuiti, indipendenti ed organizzati in modo autogestionario.

Il termine autogestione è relativamente recente, dato che è iniziato a circolare a partire dalla metà del secolo scorso. Tuttavia, anche nel secolo XIX erano stati affrontati argomenti del genere e, persino Marx, sebbene non abbia mai parlato di autogestione, si interessò a quello che questa parola designa, e che allora si chiamava «cooperativa di produzione». Egli arriva infatti ad affermare che «tutto comincia con l’autogoverno della comunità».9

Il discorso marxiano sulle cooperative operaie di produzione era però rivolto al sistema organizzativo autogestionario industriale alternativo al modo di produzione capitalistico classico. La sfida è rappresentata dall’estensione della gestione diretta a tutto ciò che è in comune. A mio avviso, tale allargamento di campo può essere svolto dall’organizzazione consiliare, stavolta non rivolto solamente agli operai, ai soldati e ai contadini, ma a tutti i componenti della comunità. Si potrebbe a questo punto parlare di consigli comunitaristi.
I consigli sopprimono la distinzione tra azione politica e azione diretta ed appaiono come una rinascita della democrazia diretta; essi esercitano un controllo diretto e continuo sui loro delegati che sono revocabili in ogni momento. Mentre il partito riproduce nella sua organizzazione la struttura della società capitalistica che distingue tra dirigenti ed esecutori, il consiglio è l’immagine della società solidale ed omogenea che sola può rendere possibile la democrazia.

Tuttavia i consigli comunitaristi non si devono sclerotizzare a loro volta e diventare strumenti di dominio permanente sulle altre parti della popolazione, ma essere organizzazioni transitorie, strumenti rivoluzionari per rompere l’apparato dello stato e realizzare la società senza classi.

Il sistema dei consigli è la rappresentazione non di un partito ma di un’idea: trasformare un popolo di oppressi e di sottomessi in una comunità di uomini liberi che si determinano con cognizione di causa e che diventano padroni del loro destino.

Essere-in-comune

Dopo aver tratteggiato brevemente quelli che possono essere considerati gli elementi importanti che una comunità deve mettere in comune, possiamo passare ad analizzare l’altra componente della comunità, che forse è ancora più importante della prima, dato che senza di questa non possiamo immaginarne nemmeno l’esistenza. L’essere-in-comune è appunto riferito ai componenti della comunità. Ma gli stessi componenti, sebbene fondamentali per l’esistenza della comunità, possono essere gli artefici di un ribaltamento dialettico che li condurrebbe da una modalità aggregativi ad un’altra disgregativa.
Occorre quindi prestare la massima attenzione all’individuo moderno, «anzi l’in-dividuo, questo atomo sociale non ulteriormente divisibile»,10 protagonista «in potenza» di una società comunitarista ovvero socialista nazionalitaria.11

l capitalismo reale che stiamo subendo può essere erroneamente interpretato come l’artefice principale del meccanismo di individualizzazione che sarebbe da tempo in atto nelle nostre società. In effetti, sebbene il capitalismo possa essere visto come «la prima società degli individui della storia»,12 io lo considererei piuttosto come una società costituita da soggetti autonomi. «Soggetto» è il subjectus latino, cioè la condizione di chi è sottomesso: sottomesso al consumismo capitalistico, all’artificializzazione dei rapporti umani, che diventano rapporti mediati dalle merci. «Autonomo» indica invece l’atomismo e la disgregazione del tessuto sociale.
Tutto un altro significato riveste il concetto di individualizzazione, che si ricollega (come è stato colto brillantemente da Preve) al concetto marxiano di Gattungswesen13 cioè di essenza umana generica e che implica l’impossibilità della costituzione di una «comunità solidale moderna senza un preventivo processo di individualizzazione».14

Questo processo deve però essere inteso come liberazione del soggetto autonomo dal modo di produzione capitalistico. Infatti è lo stesso Marx che dice che «il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale».15

A mio avviso, però, attendere che la «contraddizione dialettica di tipo antropologico» si realizzi tra gli individui della classe media globale e che questi individui riescano «magicamente» a liberarsi dalla morsa capitalistica si rivelerà molto probabilmente vano. Allo stesso modo, ipotizzare la costituzione dell’essere-in-comune, come individuo liberato, per mezzo di un’azione dall’alto, che proceda dapprima alla costituzione del «contenitore» comunitarista e poi al «contenuto» delle libere individualità è, secondo me, un grave errore ideologico.
Il soggetto autonomo può raggiungere la libera individualizzazione soltanto se acquista coscienza della propria subordinazione al dominio reale del capitalismo. Tuttavia soltanto una crisi profonda del modo di produzione capitalistico potrà aprire la strada alla nascita dell’essere-in-comune.
Inoltre, il richiamo alla comunità non deve diventare un nostalgismo sterile per una comunità più arcaica, con il rimpianto di una fratellanza e una convivialità perdute; e, semmai fossero esistite comunità ideali a cui ispirarsi, bisogna essere coscienti della irreversibilità della storia. Non si tratta quindi di recuperare nessuno spirito comunitario perduto. «La Gesellschaft non è venuta, insieme con lo stato, l’industria e il capitale, a dissolvere una Gemeinschaft precedente».16

Siamo noi in prima persona che dobbiamo sentirci chiamati ad approfittare di ogni possibilità per costruire ed organizzare una comunità umana a partire dai legami sociali che viviamo quotidianamente.

Maurizio Neri

Note:

  1. F. Ronchi, Alla ricerca del comunitarismo italiano (prima e seconda parte), Comunitarismo, marzo 2004 e luglio 2005.
  2. K. Marx, Il capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 1994.
  3. K. Marx-F. Engels, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma 1974.
  4. K. Marx-F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002.
  5. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2000.
  6. V.I. Lenin, L’autodecisione delle nazioni, Editori Riuniti, Roma 1976.
  7. Ibidem.
  8. Ibidem.
  9. K. Marx, Appunti sul libro di Bakunin «Stato e anarchia», in Marx-Engels, Marxismo e anarchismo, Editori Riuniti, Roma 1971.
  10. C. Preve, Individui liberati, comunità solidali, CRT, Pistoia 1998.
  11. Per quanto riguarda il nazionalitarismo – o elemento nazionale che è in comune – ne ho già esposto brevemente le caratteristiche altrove in questo saggio. Per quanto riguarda invece la società comunista, considero molto importanti la lettura e l’interpretazione di questa fatta da Costanzo Preve, che la vede come «comunità di libere individualità» (C. Preve, Comunitarismo e comunismo, in Comunitarismo, ottobre 2002).
  12. C. Preve, Individui liberati, comunità solidali, op. cit.
  13. «Con questo termine, si intende dire che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha un’essenza specifica che si trasmette per eredità naturale, ma ha un’essenza aperta che gli permette di costituire forme diversissime di socialità» (C. Preve, Individui liberati…op. cit.).
  14. C. Preve, Individui liberati…op. cit.
  15. K. Marx, Il capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 1994, citato in C. Preve, Individui liberati…op. cit.
  16. J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cr

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