Argentina, 26 luglio 1952.
Alle 20,25 tutte le radio del Paese annunciano con dolore la sua morte.
Lei, María Eva Duarte, per tutti Evita Perón, lascia il mondo a 33 anni per un cancro all’utero ed «entra nell’immortalità».
Milioni di persone sfilano lungo il suo feretro mentre piangono la controversa first lady argentina.
Artista della radio e del cinema, poi regina spirituale in perenne lotta contro le asimmetrie sociali.
Allora Cristina Álvarez Rodríguez (Buenos Aires, 1967) non esiste ancora.
Ma da piccolissima sa già riconoscerla.
Quella donna rivoluzionaria che tanto omaggiano i genitori, la vede con una pergamena in mano su un quadro appeso nella sala da pranzo di sua nonna Blanca.
I cognomi di Blanca sono Duarte Ibarguen: è una delle sorelle maggiori di Evita.
In quella stanza, la famiglia si raduna per le occasioni importanti.
Della leader dei descamisados parlano con disinvoltura e «al presente», mentre lei, ancora bambina, ascolta inconsapevole le battaglie di una prozia «eterna» la cui vita diventa anche un musical.
Don’t cry for me Argentina canterà poi Madonna ricordandola.
Da Evita, la sua pronipote eredita le battaglie e un cammino politico segnato dalla necessità di «costruire più uguaglianza».
Ora Cristina Álvarez Rodríguez è vicepresidente prima del partito giustizialista, ministra del governo della provincia di Buenos Aires e presidente ad honorem del museo Evita Perón.
In un’intervista via Zoom, collegata dal suo ufficio al Ministero, racconta «la più piccola della famiglia ma la più grande in assoluto e per sempre» che ha inciso la Storia del Sud America.
Nel presente dell’Argentina, 70 anni dopo la sua morte, Evita Perón continua a essere un’icona.
«Moltissime ragazze l’hanno tatuata sul corpo, la sua lotta contro le disparità è ancora in corso», dice. Più che seconda moglie, di Juan Domingo Perón è ombra e guida. Perché la passione travolgente che lega il colonnello e l’artista non segna solo una storia di amore, ma l’inizio di un movimento.
Anche nella sua Stanza, Indro Montanelli scrive sul Corriere del 22 febbraio 1997 che è lei «il cervello politico di Perón».
È d’accordo?
«No, credo che entrambi fossero i cervelli, tutti e due sono protagonisti di un movimento politico che proclamava la terza linea del mondo. Ma a volte, in Europa o ad altre latitudini, era difficile comprendere il peronismo».
Perché?
«Esisteva solo in Argentina e nel Sud. È stata una rivoluzione sociale in pace che ha dato diritti ad anziani, bambini, donne e minoranze. Ora, chiaramente, sento che Evita sì che era il coraggio di questa rivoluzione».
Cosa intende dire?
«Ci metteva passione, un cuore, tenerezza e fermezza. Era lei l’incaricata di parlare con i sindacati. Uscì in strada a censire le donne con i documenti per ottenere una legge sul voto femminile. Diceva che le donne dovevano votare ed essere elette, avere un partito, andare all’università. Quando parlava con loro per l’emancipazione femminile, le chiamava sorelle, amiche mie».
Quindi?
«Lì nasce il nomignolo Evita. Era una di loro. Non ha mai abbandonato i più umili, li rappresentava».
E dei suoi oggetti personali?
«Conservo un foulard con il suo nome ricamato, glielo aveva fatto mia nonna. Ma la maggior parte della gioielleria e delle sue pellicce è stata saccheggiata durante il golpe. Il museo di Evita conserva lettere, scarpe, vestiti. E soprattutto la sua eredità, la cosa più importante».
Cosa resta?
«La lotta per l’uguaglianza. In sette anni di vita pubblica ha fatto tutto quello per cui noi oggi parliamo ancora di lei. Resta la fascinazione per ciò che ha ottenuto e per il suo mito. Era un’equilibrista senza rete (ride), eterna rivoluzionaria compromessa che costruiva il sì».
Nel mondo qualcuna le somiglia?
«Lei è un personaggio nettamente argentino. Nessuno vuole essere Evita oggi. Bisogna immaginarla negli anni in cui ha vissuto. Ora le donne sono protagoniste anche in altri ambiti. In lei abbiamo una fonte di ispirazione».
Cosa le ha trasmesso?
«Sento orgoglio e responsabilità quando dico di essere la sua pronipote. Anche io combatto per l’uguaglianza. Non l’ho conosciuta, ma devo onorarla ogni giorno nel mio posto di lotta: il lavoro».
Invece Juan Domingo Perón lo ha incontrato?
«Quando avevo sei anni. Lui era tornato dall’esilio e con la famiglia ci siamo trovati nella casa di Gaspar Campos, dove Perón abitava prima delle elezioni che lo hanno portato alla terza presidenza. Ricordo che ha giocato un po’ insieme a me. Lo divertiva la frase che avevo imparato a scrivere alla scuola materna».
Quale frase?
«In realtà era una sigla: VP, come Viva Perón».