L'Italia Mensile

Eroismo, “ottimismo escatologico” e “infelicità filosofica”

L’eroismo è infatti l'”ottimismo escatologico” da cui Dasha era profondamente ispirata e allo stesso tempo ferita. … “ferita”: dal fatto che il mondo moderno ha puntato sull'”abisso della terra”, sul “baratro di sotto”, sulla discarica di obiettivi insignificanti, sulla festa cinica delle cose materiali: Dasha è stata “ispirata” dal fatto che, allo stesso tempo, sono state gettate nel mondo anime elette e solitarie, che immancabilmente, contro ogni previsione, ripongono la loro speranza nell'”abisso del cielo” e stringono un patto disperato con il Cielo, andando a combattere sui campi di guerra o in guarnigioni e fortezze lontane, ai confini di territori sinistri, da dove stanno per piombare le orde di Gog e Magog dei tempi finali. Queste guardie scelte sono chiamate a proteggere l’Uomo, a ostacolare la frantumazione delle costruzioni spirituali, degli eidos di luce, dei paradigmi celesti e delle scale di ascesa, ancora sparsi nel mondo, sebbene siano diventati quasi invisibili e illeggibili.

È stata Dasha stessa a inventare questo concetto bifronte e dalla voce diversa – l'”ottimismo escatologico” – o l’ha pescato dal flusso di intuizioni tristi e rassicuranti dei suoi pensatori preferiti della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo: F. Nietzsche, Emil Cioran, Raymond Abellio, Julius Evola…?
Dasha seguiva Platone, il quale affermava tristemente che il filosofo è condannato a un doloroso tentativo di unire ciò che è difficile da unire: le più alte contemplazioni delle idee divine e il mondo terreno, ordinario, dove tutto è in disordine, dove gli esempi intelligenti di verità sono accuratamente cancellati e come coperti dalla polvere dell’ordinarietà mortifera.

Il mito di Platone descrive paradossalmente una trama molto speranzosa e allo stesso tempo tragica, in cui il filosofo risvegliato esce dalla caverna oscura in cui la maggior parte dell’umanità langue, contemplando il teatro delle ombre. In questa prigione, le persone si sono volontariamente allontanate dalla luce e guardano in uno schermo sulla parete scura della caverna. Vi è proiettato un susseguirsi di falsi e trucchi di ogni tipo, come riflessi ed esiti delle patetiche attività dei cortei di clown, antichi propagandisti e divulgatori di doxa, di opinioni momentanee ai confini superiori della caverna. Le persone in questa casamatta sono incatenate e non possono girare la testa verso la luce, accontentandosi delle false immagini sul muro. Chi resiste, rompe l’ordine, si sforza e gira la testa verso la luce, per poi emergere nel vero mondo del sole intellettuale, diventa un filosofo e un eroe allo stesso tempo.

Purtuttavia, il filosofo non deve solo salire nel vero mondo, vedere il vero mondo delle idee, degli schemi e delle gerarchie spirituali, è poi chiamato a ridiscendere nella caverna, a “tornare”. Tornare” significa portare la verità al resto dell’umanità.
Questo doppio personaggio del filosofo come mediatore tra i mondi, come messaggero, come messaggero di luce, Daria lo sentiva e lo capiva perfettamente. Senza dubbio lei stessa aveva sperimentato illuminazioni del vero pensiero ed era stata toccata da stati di contatto con il lato segreto delle cose.

Nel mito della caverna, dopo essersi alzato da terra ed essere sgusciato fuori dalla squallida prigione, il filosofo, secondo Platone, contempla grumi di significati quando le sequenze di eventi vengono compresse e appaiono come una simultaneità istantanea, come la proiezione di perline su un filo teso verticalmente su un piano. “Il gioco delle perle”, “il gioco delle perle di vetro”… l’idea magica di Herman Hesse. Il filosofo però non è solo impegnato a scrutare le perle, bensì a salire lungo la catena dei significati. Il filosofo è un pellegrino verso i mondi superiori del logos, dello spirito. Allo stesso tempo, dal conosciuto, nominato e comprensibile (catafatico) il filosofo deve passare all’ignoto e all’indescrivibile.

In Platone questo sogno è chiamato “epistrofe” (ἑπιστροφή) – un’ascesa sulla scala delle virtù, delle scienze, dei riti, delle offerte di preghiera agli dei. Ma ciò “comporta una fuga dai contorni della propria finitudine, comporta un’esperienza di rottura con la storia individuale, un’esperienza di rottura mistica, un incontro del sé come finitudine con qualcosa di sconosciuto che è infinito”.

Non è forse questo il luogo dell’eroe? Seguiamo ancora Platone e Daria Platonova-Dugina. Dopo le altezze splendenti del filosofo nel giusto stato platonico, egli deve ancora una volta andare nella caverna del non senso e della futilità. È costretto a scendere nella dimora delle ombre e a contemplare ancora una volta i lati oscuri della vita. In alto ha contemplato la verità e ora il suo obiettivo è ribellarsi all’illusione, distruggere la dubbia stabilità della Nave dei Folli, l’intimità del palazzo sotterraneo dei sogni. È pronto a raccontare ciò che ha visto in cielo, a spiegare, a interpretare, a chiedere la trasformazione dell’uomo perduto. Per questo, il filosofo può essere giustiziato da filistei sciocchi e malvagi. La gente non vuole spegnere il televisore.
È nel punto di congiunzione dialettica tra l’ascesa alla luce e la discesa nell’inferno del sottosuolo che Daria vede la magica congiunzione di eroismo, filosofia, impresa filosofica e “ottimismo escatologico”.

Un altro modo di descrivere l’eroismo multidimensionale è legato in Daria alla “problematizzazione” di Hegel di Schiavo e Padrone. Dove l’uno è pronto a professare la libertà del Maestro, che è in grado di accettare il rischio di affrontare la morte, “per lanciare la sua freccia di desiderio verso l’altra riva” (scriveva Nietzsche), nasce un altro tipo di eroe. L’eroe non cerca la felicità e non la trova. Solo gli “ultimi uomini” di Nietzsche cercano pedissequamente la felicità, dicono: “La felicità la troviamo noi… e sbattiamo le palpebre” . L’eroe compie un atto di volontà, allontanandosi da “questa riva” dell’illusorio e dirigendo il suo gesto, la sua intenzione verso un’altra riva di cui non sa nulla. Non c’è mai certezza o garanzia in questo atto. È un lancio disperato, un gesto rivolto verso il nulla, diretto verso un luogo “dove non ci sono paralleli né poli”.

Questo lancio si rivelerà un passaggio nel nulla dall’alto verso la dimensione apofatica del Supremo? Possiamo addirittura dire che si tratta di una volontà verso l’Uno supremo, che (nella tradizione platonica) non ha nemmeno l’essere, essendo preesistente, cioè al di sopra dell’essere, prima dell’essere, prima dell’essere? Un esercizio così libero e rischioso può portare a cadere nella trappola di una sorta di parodia del Supremo – l'”uno dal basso”, che si nasconde sotto il rivestimento delle cose, dietro il velo della materia. Sembra che sia proprio questa unità inferiore quella a cui i moderni ontologi orientati agli oggetti si sono interessati profondamente, facendo precipitare l’umanità nell’ultimo nulla.

L’eroismo, se seguiamo il pensiero e il sentimento di Daria, è un ottimismo escatologico che si esprime nel fatto che ci troviamo in un mondo condannato, dove siamo vittime e non possiamo sfuggire a questo circolo vizioso. Anche in quanto crocifissi, però, siamo ancora obbligati, e supremamente vincolati, a mantenere lo status di questo universo costituendo, completando, ricostruendo e rattoppando questo mondo. E anche senza un volontario lancio in direzione dell’Assoluto, gli uomini stanchi in un mondo senza senso si trovano ancora in qualche modo sull’ultima frontiera della difesa dello spirito contro le tenebre sottostanti, della luce celeste contro l’insensatezza e la materialità.

I portatori dell’ottimismo escatologico sono ancora qualcosa di simile agli ultimi difensori di questo mondo, alle sue ultime frontiere, come i soldati di un avamposto abbandonato nello sterminato deserto di qualche paese sconosciuto, che è perfettamente illustrato nel film Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini.

Tratto da:
Biblioteca Darya: per il 31esimo compleanno di Dasha
21 Dicembre 2023 da di Aleksandr Dugin e Natalia Melentieva

(https://t.me/ilbardodidasha)

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