di Diego Fusaro
Con la morte di Silvio Berlusconi, se ne va un pezzo di storia italiana, quale che sia il giudizio che vogliamo prospettarne.
Sul piano politico, Berlusconi ha rappresentato il passaggio di assestamento decisivo dalla “prima” alla “seconda” repubblica: con annessi trionfo della ragione neoliberale e ridefinizione dello Stato come impresa capitalistica privatizzata.
Sul piano geopolitico, è stato migliore di molti altri: ha garantito all’Italia rapporti parzialmente buoni con la Russia e con la Libia, risultando incommensurabilmente superiore ai vari caudillos atlantisti venuti dopo di lui.
Sul piano antropologico-morale, ha rappresentato la perfetta incarnazione dei princìpi sessantotteschi del “tutto è possibile”, “godiamo illimitatamente”, “la legge va abbattuta”.
Nel 2011, venne deposto da un colpo di stato finanziario made in UE (fu il solo momento in cui ci sentimmo “berlusconiani”): da quel momento, prese ad amare i suoi nemici e si fece vettore dell’europeismo più gretto e subalterno, che fino a quel momento aveva combattuto.
La sua presenza sulla scena politica ha tenuto in ostaggio la politica italiana per vent’anni, spaccando il campo nei due schieramenti dei berlusconiani e degli antiberlusconiani: ha rappresentato e guidato la metamorfosi della destra storica in destra neoliberale, ma ha altresì favorito la metamorfosi della sinistra in sinistra antiberlusconiana, in un totale oscuramento della questione sociale, sostituita dall’odio left-oriented contro il Cavaliere.
Di quei vent’anni, il giudizio può così essere sintetizzato: peggio del berlusconismo solo l’antiberlusconismo.
Sul piano mediatico, ha introdotto il modello pestilenziale della tv trash della deregolamentazione integrale dell’immaginario in senso consumista, con svestimento dei corpi femminili e copertura con abiti firmati dei corpi maschili: quel paradigma si è dapprima affiancato a quello della tv pubblica e poi lo ha sostituito, costringendo la tv pubblica ad adattarsi ad esso.
Ha inventato il modello della telepolitica, guidando gli elettori dal salotto alla cabina elettorale: non più grandi ideali, ma slogan e immagini rassicuranti.
La politica dei social è solo un’evoluzione peggiorativa, se mai è possibile, di quel modello.
Ha sempre cercato il contatto con il popolo, per semplici ragioni di populistico consenso alle proprie politiche di classe.
In ciò si differenzia notevolmente dalla politica demofobica contemporanea, che ostenta il proprio disprezzo verso il popolo.
Berlusconi il popolo mostrava di amarlo, perché il popolo era la sua fonte di legittimazione politica.
I tecnocrati venuti dopo non ne hanno bisogno, giacché traggono altrove la propria legittimazione.