L’antifascismo e il PCI cancellano anche i compagni scomodi!
Pur essendo stato fondatore del Partito Comunista d’Italia e prima guida politica nazionale nel 1921, Amadeo Bordiga è oggi poco conosciuto. Eppure, nonostante alcune rigidità, il suo pensiero ha ancora qualcosa da dire sul presente e sul futuro
Nell’agosto scorso la casa editrice Brill ha pubblicato, nella sua collana «Historical Materialism», la prima Antologia di scritti di Amadeo Bordiga in lingua inglese: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965). L’ha curata Pietro Basso, un marxista militante da lungo tempo, oggi redattore della rivista Il cuneo rosso. Nelle prossime settimane la sua Introduzione all’Antologia sarà pubblicata in Italia dalle Edizioni Punto Rosso.
Bordiga è un comunista quasi sconosciuto nel mondo anglofono ma, in gran parte, lo è anche in Italia, nonostante sia stato per almeno tre anni il leader indiscusso del Partito comunista nato a Livorno il 21 gennaio 1921, esattamente un secolo fa. La storiografia del Pci lo ha addirittura tacciato di collaborazione con il fascismo, per poi condannarlo al silenzio nel secondo dopoguerra. Come mai un tale destino?
Negli anni Trenta la denigrazione di Bordiga è stata tutt’uno con la «lotta al trotskismo». La sua espulsione dal partito, nel marzo 1930, avviene per aver «sostenuto, difeso e fatte proprie le posizioni dell’opposizione trotskista».
Negli anni Quaranta, in particolare dopo la fine della guerra, il gruppo dirigente del Pci era preoccupato che Bordiga riprendesse l’attività politica, conoscendo il forte ascendente che aveva esercitato sugli iscritti al partito. La rigidissima consegna fu: creare un fossato fisico, psicologico, ideologico, «morale» tra i quadri e i militanti del Pci, e Bordiga e la sua aspra critica della linea di collaborazione nazionale con i partiti borghesi e la classe capitalistica sposata dal Pci – una prospettiva che, a dispetto del nome di «via italiana al socialismo», conteneva proprio la rinuncia all’obiettivo storico del socialismo.
La denigrazione e il tentativo di cancellare Bordiga dalla storia del partito furono attuati con metodi di abietta falsificazione. Ad esempio, nelle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, Bordiga è menzionato 18 volte, spesso con simpatia. Nonostante le differenze di formazione e le divergenze politiche, infatti, i due erano legati, oltre che dalla comune militanza, da sentimenti di stima e amicizia che non vennero mai meno. Ma nell’edizione delle Lettere curata da Felice Platone nel 1947 il nome di Bordiga scompare, e i passi che lo riguardano vengono volgarmente manomessi. Venne fatta circolare, poi, una foto contraffatta del (presunto) matrimonio della figlia di Bordiga in cui la (presunta) sposa veniva omaggiata da un’orda di Moschettieri del Duce – Bordiga la sbattè una volta sul muso di Massimo Caprara, a lungo segretario di Togliatti.
Quando è venuta meno quest’operazione di denigrazione/occultamento di Bordiga?
Comincia a venir meno a fine anni Sessanta, quando l’Italia è scossa da un impetuoso risveglio di lotte operaie e sociali che esprimeva una critica di massa, magari superficiale e non conseguente, del «partitone» riformista e della sua sempre più organica integrazione nelle istituzioni e nelle logiche borghesi.
In questo nuovo contesto sociale e politico è nata la spinta a ricostruire la reale vicenda del movimento comunista in Italia, sia tra gli storici di sinistra più indipendenti (Cortesi, Fatica, De Clementi, Merli), sia tra i militanti. A quel punto è diventato possibile imbattersi nell’imponente figura di Amadeo Bordiga e nella storia del Pcd’I per quello che realmente sono state. Per quanto mi riguarda, l’incontro è avvenuto a metà anni Settanta, pungolato dalle «provocazioni» intelligenti di Silvio Serino. In seguito ne ho approfondito lo studio sotto il consiglio di Paolo Turco, un valente internazionalista alla cui memoria ho dedicato l’Antologia.
Cancellare Bordiga era anche funzionale alla costruzione di una certa visione di Gramsci – il patriota, il democratico, ecc. – contrapponendo in modo forse troppo frontale questi due militanti, che dopotutto avevano collaborato nella nascita del Pcd’I, non credi?
Certo: rimuovere del tutto Bordiga è servito al Pci anche a rimuovere la partecipazione di Gramsci alla nascita del Pcd’I come partito internazionalista rivoluzionario, per sostituire il Gramsci feroce critico del Psi ed entusiasta aderente alla III Internazionale, con un Gramsci utile a legittimare, attraverso il frontismo, l’integrale adesione del Pci agli interessi del capitalismo nazionale (e internazionale), il padre nobile della lunga marcia del Pci nelle istituzioni dello stato borghese.
Salvo poi disfarsene come di un vecchio impolverato pupazzo di pezza, per sostituirlo con figure di tutt’altro rango: i Willy Brandt, i Tony Blair, i coniugi Clinton…
Anche tra coloro che non conoscono bene l’attività e il pensiero di Amadeo Bordiga, uno degli aspetti più noti è il suo astensionismo elettorale. Anche perché fu l’oggetto della polemica di Lenin contro di lui.
Tu sostieni invece che bisogna ridimensionare l’importanza che ha avuto l’astensionismo nell’attività politica di Bordiga.
Constato una contraddizione: in Bordiga la ripulsa dell’elettoralismo diventa sempre più radicale fino al famoso articolo comparso sull’Avanti! il 21 agosto 1919 in cui compare la secca alternativa: Preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale. E però ogni volta che è costretto a scegliere tra la sua convinzione astensionista e la disciplina di partito, vince la disciplina. Questo è avvenuto nel 1919; al II Congresso dell’Internazionale nel 1920; nel 1921, quando, alla guida del Pcd’I, sostiene che è giusto partecipare alle elezioni in quanto si è in una fase di reazione politica; nel 1924, quando è già all’opposizione nel partito. Inflessibile, e anche schematico, nel formulare i principi, era più flessibile nell’azione politica.
Tuttavia è un dato il progressivo irrigidimento astensionista posto, nel dopoguerra, come questione di principio. E rimanda alla peculiare concezione generale della tattica propria di Bordiga, che la dissolve quasi nella strategia, per la pretesa – che Bucharin gli contesta – di «fissare l’ignoto», facendo in anticipo «l’inventario di tutte le ipotesi» ed elaborando «ogni sorta di misure di prudenza per non commettere alcun errore».
Qui tocchi un punto molto interessante. Di solito la «complessità» dei paesi democratici dell’Occidente viene utilizzata per insistere sulla necessità di adottare tattiche più flessibili, alleanze larghe, e concepire stadi intermedi tra il capitalismo e il socialismo. Bordiga ritiene, al contrario, che alla «diversità» dell’Occidente e alle sue specifiche forme di egemonia e di consenso, bisogna rispondere con uno scontro frontale con le istituzioni democratiche, posizione che adottò anche davanti all’ascesa del fascismo.
Anche in questo caso il bilancio è decisamente in chiaroscuro. Si può rimproverare a Bordiga e al giovane Pcd’I delle origini di non aver saputo usare in modo adeguato l’arma della tattica, sia in rapporto alle masse operaie inquadrate nel riformismo che verso le «mezze classi». Gli si può contestare di aver sbagliato nel ritenere che la borghesia italiana avrebbe preferito i Noske italiani ai Mussolini e che il fascismo avrebbe mantenuto un qualche formalismo liberal-democratico (la cosa avvenne, in realtà, solo fino al 1926). Si può anche far risalire il suo anti-democratismo di principio al pensiero libertario più che al marxismo e coglierne le pericolose ricadute sulla necessaria battaglia per la difesa dei diritti democratici delle classi lavoratrici.
Ma c’è un rovescio della medaglia non da poco. Anzitutto il Pcd’I a guida Bordiga è stato il solo partito che si è battuto coerentemente e in modo organizzato contro il fascismo (e di questo ha poi largamente beneficiato anche il «partito nuovo» di Togliatti negli anni della Resistenza). In secondo luogo va riconosciuto a Bordiga di avere posto (dico: posto, non risolto) la questione della speciale «potenza storica del parlamentarismo borghese» in Occidente. E di avere messo in luce che non si poteva trasferire meccanicamente in Europa occidentale la tattica adottata in Russia sottovalutando che i moderni stati capitalisti liberali disponevano di una capacità di auto-difesa e di intervento nella vita del movimento operaio assai maggiore degli stati autocratici. Sul piano storico, inoltre, è incontestabile la sua previsione che la borghesia democratica, dopo aver spianato la strada al fascismo, lo avrebbe usato e, al momento opportuno, scaricato. Così come l’aver identificato negli stati democratici tendenze sempre meno liberali, sempre più burocratico-totalitarie, e denunciato lo stretto legame tra democrazia e militarismo – di cui l’imperialismo statunitense è stato ed è il massimo esempio.
Oltre che per la critica della democrazia, Bordiga si è contraddistinto anche per la sua peculiare visione del partito.
La sua formula più espressiva è: il partito è a un tempo un prodotto e un fattore della storia. Ma specie nel secondo dopoguerra c’è una forzatura, anzi: una catena di forzature di questa stessa formula in chiave «soggettiva», che lo conduce a rappresentare il partito quasi come il deus ex machina del processo rivoluzionario, fino a sostenere che «definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi». Il risultato è una sorta di canonizzazione metafisica del partito a scapito del ruolo attivo della massa della classe e degli sfruttati in generale, e dell’adeguata considerazione delle pre-condizioni oggettive che consentono ai proletari di «organizzarsi in partito». Su questo si demarca sia dai consiliaristi e da Rosa Luxemburg, che da Lenin. È questa, secondo me, la parte più caduca del lascito di Bordiga. E anche contraddittoria, perché se più volte sostiene che la degenerazione del partito comunista non dipende essenzialmente da errate formule organizzative, nel secondo dopoguerra dà valore ad alcuni concetti o misure organizzative come fossero invece capaci di preservare di per sé l’integrità del partito (dal centralismo organico al rifiuto di statuti e regole, dall’assoluta anonimità al partito come Gemeinwesen che anticipa la futura società).
Un aspetto molto importante di tutta la militanza e il pensiero di Bordiga è l’internazionalismo. Ha sempre collocato sia i problemi russi che quelli italiani nel contesto internazionale, negando la possibilità di costruire il socialismo in un solo paese (per di più arretrato). Quindi c’è la critica di Stalin nel 1926 al VI Esecutivo allargato e l’insistenza che tutti i partiti del Comintern prendessero in mano anche i problemi «russi».
L’internazionalismo è stato un elemento caratterizzante dal primo all’ultimo giorno della sua vita di militante, e questa attitudine teorica e politica è di una straordinaria attualità. Fu tra i dirigenti della Terza Internazionale più radicalmente convinti che lo scontro tra capitalismo e socialismo fosse uno scontro mondiale, e avrebbe avuto un esito, di vittoria o di sconfitta, unitario; senza per questo perdere di vista, come gli si contesta a torto, la diversità dei contesti, delle situazioni e dei passaggi del movimento rivoluzionario internazionale.
Per lui (non solo per lui, è ovvio) l’Ottobre russo era soltanto l’atto I della rivoluzione socialista internazionale.
E resta nella storia la sua battaglia al VI Esecutivo allargato (Mosca, febbraio 1926) per affermare che la questione russa non era semplicemente russa: il destino della rivoluzione russa era decisivo per quello della rivoluzione internazionale – come è stato. Per cui le decisioni da adottare per sviluppare progressivamente «elementi socialisti nell’economia russa», le scelte verso i contadini, i nepmen, la piccola borghesia, la politica del partito russo e dello stato russo all’interno e verso l’estero, erano questioni vitali per l’intero movimento comunista internazionale, per le sorti dello scontro, ancora aperto (al 1926), tra rivoluzione e controrivoluzione, e quindi dovevano essere affrontate e decise assieme dall’intera avanguardia comunista internazionale. Rimase solo a sostenere questa tesi, perché nei partiti comunisti era in atto da anni una politica di emarginazione, intimidazione, e di «volontaria» chiusura nel silenzio, di quanti non condividevano gli indirizzi che si stavano prendendo in Russia e nell’Internazionale. E perché, più in profondità, era già cominciato da anni il rinculo del processo rivoluzionario davanti alla forza della controffensiva capitalistica anch’essa internazionale (democrazie+fascismo).
La critica bordighiana dello stalinismo rifugge dal moralismo, dal democratismo, dalla tentazione di individualizzare il «male» e dalla generica ripulsa del burocratismo. Nel secondo dopoguerra, poi, scandalizzando forse qualcuno, sostiene che lo stalinismo, controrivoluzionario in politica, ha avuto la funzione rivoluzionaria di costruire capitalismo in Russia.
Bordiga, espulso dal partito nel 1930, si ritira dalla vita politica.
Caratterizzò la sconfitta dei secondi anni Venti come una sconfitta fondamentale, duratura, dopo la quale si sarebbe dovuto aspettare un cambiamento di fase storica prima di poter ricostruire il partito. Non si lanciò in una lotta di frazione dentro l’Internazionale, e quando in una rara intervista prima della morte gli fu chiesto perché non era andato all’estero, la risposta fu: «non c’era niente da fare».
In effetti, la sua risposta è sempre stata questa. E si spiega anche con il fatto che il doppio durissimo colpo inferto dal fascismo al Pcd’I nel 1923 e nel 1926 lo aveva praticamente disarticolato.
Negli anni Trenta, in Italia, ha fatto pochissimo quanto niente, anche il Pci di Togliatti. Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, fu abbandonato a sé stesso. Si può criticare Bordiga per aver interrotto ogni rapporto anche con i suoi più stretti compagni della Sinistra emigrati in Belgio, in Francia, negli Stati Uniti, e con quelli rimasti in Italia. Anche perché negli anni Trenta, in Spagna, in Francia, in Cina e altrove ci sono stati scontri di classe importanti. Tuttavia va tenuto presente che il precipizio contro-rivoluzionario fu devastante per velocità e profondità, e in quel terribile vortice neanche l’irriducibile Trotsky riuscì a ottenere particolari risultati.
Quando Togliatti sbarca a Napoli verso fine marzo 1944, la prima cosa che chiede, secondo alcuni suoi compagni, è: «cosa fa Bordiga?». Era caratteristico di Bordiga negare il ruolo dell’individuo e anche la sua stessa importanza. Ma sta di fatto che durante la
Prima guerra mondiale era stato un leader carismatico dell’anti-interventismo, e nel 1943-1944 avrebbe potuto diventare un punto di riferimento per le varie opposizioni e minoranze esistenti nella base del Pci, molto confuse, ma convinte di stare ripristinando le tradizioni del partito del ’21…
Sembra che Bordiga fosse dell’idea di non affrettare, e perfino di sconsigliare, l’uscita dal Pci dei quadri proletari più legati all’esperienza degli anni Venti. Forse si aspettava un’evoluzione non di singoli o di piccoli gruppi, ma di un settore di proletariato combattivo verso le posizioni della Sinistra. Quel che è certo, invece, è che fu strattonato da più parti perché tornasse in campo sulle posizioni «di sempre». Recalcitrava perché riteneva assai prematuro ogni tentativo di ricostituire «il partito».
Tuttavia dalla fine del 1944 al 1965-66 svolgerà comunque un’intensissima attività, seppur molto diversa da quella degli anni 1911-1926.
Puoi dire qualche parola in più sulle differenze dell’attività di Bordiga nei due periodi?
Non sono soltanto due periodi dell’attività militante di Bordiga, sono due fasi storiche radicalmente differenti. E tale radicale diversità ha inciso in modo determinante sulle caratteristiche della sua attività. Gli anni 1912-1926 corrispondono all’incubazione e all’esplosione del più grande ciclo rivoluzionario della storia contemporanea, protagonisti il proletariato industriale russo ed europeo e le masse contadine povere di Russia. Viceversa, gli anni 1945-1965 coincidono con i mitici decenni della pace (in Europa) e dello sviluppo post-bellico, segnati da un ritmo dell’accumulazione di capitale senza precedenti e dall’avvento della «società dei consumi». Una lunga fase particolarmente sfavorevole per l’azione politica organizzata dei rivoluzionari. In Italia ci fu solo un breve arco di tempo, tra il marzo 1943 e giugno 1947, in cui fu dato ai più coriacei tra i rivoluzionari internazionalisti appartenuti al Pcd’I di svolgere, come Partito comunista internazionalista, un lavoro politico organizzato che fosse in qualche misura legato a settori di massa. Passato questo intermezzo, il lavoro di Programma comunista, il collettivo di compagni con cui Bordiga operò dopo il 1952, fu un lavoro essenzialmente teorico e, al più, di propaganda politica.
Bordiga ha sempre parlato dell’importanza di tornare al marxismo classico. In che senso potremmo dire, invece, che la sua elaborazione nel secondo dopoguerra è stata innovatrice?
Amadeo Bordiga e il collettivo di compagni stretto intorno a lui si trovarono di fronte al compito colossale di ristabilire i cardini della teoria marxista non più attingendo a «singoli frammenti» di essa, ma ripercorrendola tutta da cima a fondo perché nessun suo aspetto era sopravvissuto intatto dopo l’opera di adulterazione compiuta dallo stalinismo, e l’abile uso capitalistico di questa adulterazione.
Bordiga utilizza gli attrezzi forniti dalla tradizione marxista anzitutto per esaminare e inquadrare l’esperienza della «costruzione del socialismo» in Russia. Per sciogliere questo enigma, si serve delle categorie dell’economia politica marxiana, andando diritto ai rapporti di produzione e chiedendosi se nella Russia di Stalin vigevano o no, in essi, le stesse categorie del capitalismo in Occidente. Si è trattato di un enorme lavoro di ricerca sui dati relativi all’evoluzione sociale della Russia in cui era impegnato con lui tutto il collettivo di Programma comunista. L’essenziale, sostiene, non è la proprietà statale o privata dei mezzi di produzione, è l’estrazione di plus-valore e la redditività; sono i criteri di fondo con cui la produzione è organizzata; è la centralità, o meno, dell’azienda, il dispotismo aziendale («la bestia è l’azienda, non il fatto che abbia un padrone»); sono l’esistenza o meno della produzione di merci, lo scambio mercantile, la vendita e la compera di forza-lavoro, il salario, la contabilità in moneta, i prezzi, che non sono meri strumenti tecnici, residui nella circolazione di un modo di produzione ormai superato. Se permangono tali categorie, c’è capitalismo.
E quindi non può esserci vera pianificazione socialista, perché questa si fa sulla base del censimento dei bisogni sociali, determinando ex ante ciò che si deve produrre.
Pochi marxisti hanno dimostrato con pari chiarezza che una cosa è l’economia statizzata, altra l’economia socialista. Per Bordiga la linea di tendenza generale – già negli anni Cinquanta – era alla riduzione degli elementi statali nell’economia, non l’inverso. E le figure dei classici capitalisti imprenditori privati individuali si stavano formando dentro le reti di connessione tra imprese e mercato e dentro il processo dispotico di estrazione del plus-valore all’interno delle singole aziende, di stato o meno. Non si auto-confessavano ancora per tali, ma la «confessione» sarebbe venuta. E venne, infatti, in pieno, negli anni della perestroika gorbacioviana e seguenti.
O qualcuno pensa che i pescecani dell’era Yeltsin siano stati paracadutati dall’estero?
Nell’Antologia c’è anche un’ampia sezione di scritti di Bordiga che riguardano gli Stati Uniti, e sono forse tra i meno conosciuti…
Infatti, nel secondo dopoguerra l’altro grande campo di applicazione della critica bordighiana operante con le armi ri-affilate del marxismo classico sono gli Stati Uniti, il paese-guida del capitalismo occidentale e mondiale che nel secondo dopoguerra diffondeva ovunque, anche al di là della cortina di ferro, l’utopia di un capitalismo affluente e popolare, capace di superare nei fatti la polarizzazione di classe. Ho scelto una decina di testi del decennio 1947-1957, che parlano degli Stati Uniti, del loro «assalto all’Europa», della loro guerra in Corea, del loro modello di società. Già negli anni Cinquanta Bordiga mette nel mirino il tentativo statunitense di «promuovere» il proletario a consumatore, costringendolo a indebitarsi attraverso il suo folle disciplinamento «a consumi standardizzati e scatoliformi spesso dannosi». L’economia capitalistica è inquadrata da Bordiga negli anni Cinquanta come Disaster Economy, con una critica dell’economia dello spreco che non ha pari in altri marxisti.
La Disaster Economy…
Sì, prima, molto prima, dell’attuale recupero della dimensione ecologica del pensiero di Marx, Bordiga ha mostrato che nel marxismo delle origini l’aggressione capitalistica al lavoro vivo e l’aggressione del capitale alla natura sono due facce della stessa medaglia, e usando lo stesso criterio si coglie nell’ultimo capitalismo «una feroce fame di catastrofe e di rovina».
Nel caratterizzare il capitalismo contemporaneo, attraverso la sua ipertrofia finanziaria, la sua ipertrofia speculativa, la sua ipertrofia consumistica e debitoria, la sua mostruosa ipertrofia militarista, il suo distruttivismo anti-ecologico, la sua rinnovata oppressione neo-coloniale sui popoli di colore, e così via, Bordiga ha visto lontano. E nella sua critica delle caratteristiche degenerative del supercapitalismo statunitense non c’è nulla dell’anti-americanismo di maniera con il suo rancido retrogusto nazionalista o europeista; c’è la critica delle tendenze generali del modo di produzione capitalistico e dei guasti crescenti che provoca nella vita dell’umanità e della natura.
Una critica acuminata, piena di sarcasmo, particolarmente attuale, che mostra il carattere anti-produttivistico del marxismo di Bordiga.
Non a caso, nel 1953, stilando un programma delle prime trasformazioni rivoluzionarie da attuare nei paesi a capitalismo sviluppato, mette al suo centro un piano di sottoproduzione: tagliare miliardi di ore di produzione inutile o dannosa, disinvestire, aumentare i costi di produzione, sradicare l’abitudine al superconsumo.
Per molti aspetti, questo non è più il programma del Manifesto del Partito Comunista del 1848… Dallo studio di Marx e del marxismo, inclusi i testi trascurati o appena scoperti (i Grundrisse, di cui ha scritto il primo commento in italiano), arriva alla definizione del comunismo come piano di vita per la specie umana. Un piano unitario e internazionale di produzione e di consumo, fondato sulla soddisfazione dei bisogni umani autentici. Questi temi sono stati posti con largo anticipo sui tempi, e ci si presentano tutti, nell’attuale momento, con una impressionante drammaticità.
Sebbene non pensava che stessero costruendo il socialismo,
Bordiga ha anche riconosciuto la forza dirompente delle rivoluzioni anticoloniali e ha ripudiato ogni visione appiattita e indifferenziata del mondo.
Negli anni Venti Bordiga rimase perplesso davanti alle tesi sulla questione coloniale approvate dal II congresso dell’Internazionale comunista.
Ma nel secondo dopoguerra, sollecitato dal forte moto coloniale tricontinentale, si corregge e fa sua, per l’essenziale, la visione su cui trent’anni prima aveva esitato.
Per Bordiga le rivoluzioni anticoloniali sono rivoluzioni sociali autentiche, rivoluzioni agrarie, antifeudali, nazionali.
Limitate certo all’instaurazione di rapporti sociali borghesi, ma vere rivoluzioni, che ampliando l’area dei rapporti sociali capitalistici nel mondo in scontro con le grandi potenze, e trascinando nell’area della politica mondiale immense masse di sfruttati, gettavano alla lontana le basi per la rinascita di un movimento proletario internazionale più potente che mai.
Negli ultimi anni è evidente, specie nel mondo anglosassone, un «ritorno a Marx», che si spiega con l’avvento di una crisi epocale del capitalismo.
In questo nuovo contesto storico costellato di eventi catastrofici come quelli in cui il capitalismo ci ha piombati dall’inizio del secolo, sono convinto che l’«iguanodonte fossile» Amadeo Bordiga verrà riscoperto come un marxista (sui generis) che ha più di qualcosa da dire sul presente e sul futuro, mentre chi l’ha definito tale (l’illustre Togliatti) sarà definitivamente inghiottito nell’oblio.
*Pietro Basso ha insegnato sociologia nelle università di Napoli (Istituto Orientale) e Venezia (Ca’ Foscari). Improntati alla critica marxista del capitalismo, i suoi scritti sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobìa, le lotte del proletariato, sono tradotti in molte lingue. David Broder è uno storico del comunismo francese e italiano ed è redattore europeo di Jacobin.
https://mond.at/kelebek/occ/bordiga01.htm