di Claudia Placanica, membro della Direzione Nazionale di AISD
Il più significativo successo del primo lungometraggio della Mattel – Barbie – è l’aver definitivamente consacrato il promettente attore canadese Ryan Gosling come feticcio dell’estetica pop-woke.
L’autentica oscenità di questo film coincide con la scena in cui, Ryan Gosling / Ken, che il pubblico cinefilo ricordava nelle vesti del killer nei film autoriali di Refn, scende l’acquascivolo rosa della casa della sua amica Barbie, Barbie-stereotipo nella fattispecie.
Essi, circondati da altre bambole e bambolotti, espressione del politicamente corretto e dell’intersezionalità cara ai radicali statunitensi (Barbie asiatica, Barbie afroamericana, Barbie curve, Barbie paralitica, Barbie stramba, Ken asiatico, Ken afroamericano, Allan gay), vivono a Barbieland.
Barbieland potrebbe essere l’approdo demenziale e, dunque, il requiem della cultura woke o, potrebbe sancire la definitiva morte della cultura woke, del piagnisteo e dell’inclusivitá che ha ammorbato troppe decadi.
Barbie-stereotipo (Margot Robbie, anche produttrice del lungometraggio), durante una festa da ballo nella sua dimora (ispirata all’artista Jeff Koons o che ha ispirato Jeff Koons), ha improvvisamente pensieri di morte.
In seguito a questo episodio, si ritrova con i piedi piatti e in difficoltà sui tacchi.
Consultata Barbie-stramba, apprende che, in quanto bambola, ha introiettato i pensieri della bambina che la fa giocare, pensieri che potrebbero peggiorare la situazione e generare altri difetti inestetici.
La soluzione è accedere al mondo degli esseri umani e recarsi a Los Angeles dove vive la ragazzina dai pensieri letali.
Barbie-stereotipo intraprende questo viaggio accompagnata dall’asfissiante Ken, innamorato non ricambiato della bambola più desiderata del pianeta.
Arrivati nella metropoli californiana, a un gruppo di uomini ammirati dalla bellezza di Barbie (lei e il suo amico sono in dimensioni e sembianze umane), la bambola comunica: “Io non ho la vagina e lui non ha il pene: non abbiamo genitali.”
Questo passaggio comincia a chiarire le coordinate attraverso le quali si sviluppano la trama (con diverse incongruenze) e i messaggi esageratamente didascalici del film.
In precedenza avevamo già sentito che “Barbie può diventare tutto” e che, “quando giochi con la Barbie, usi l’immaginazione“.
Tutti questi stralci di dialoghi riconducono alla fluidità di genere e al principio del piacere, la cui tirannide si è imposta sul principio di realtà, plasmando una società liquida e basata sull’individuo, più che sul gruppo e sulla comunità.
Non va dimenticato l’epilogo del film in cui, Barbie, divenuta umana, si reca dal ginecologo.
Chirurgia per ottenere i genitali di cui era priva?
In ogni caso, a Los Angeles, come a Barbieland, sono tutti snelli, eleganti e ricchi: una consueta maniera in cui si autorappresentano gli statunitensi e a cui ormai siamo così avvezzi da non farci più caso fino a quando, giunti negli Stati Uniti, non ci rendiamo conto dal vivo di quanto, quello stereotipo trasmesso attraverso un’iconografia pervasiva, sia completamente slegato dalla realtà.
I due bambolotti, a un certo punto, si dividono: Ken scopre le potenzialità del patriarcato che metterà in atto tornando a Barbieland, Barbie farà i conti con Sasha (una ragazzina, figlia di Gloria, una dipendente della Mattel, artefice dei pensieri di morte introiettati da Barbie) che chiuderà la sua invettiva woke dando della fascista a Barbie.
Una scena intensamente demenziale che coincide con l’incipit della presa di coscienza di Barbie-stereotipo.
Quando quest’ultima si recherà alla Mattel (gli sponsor e la strategia di product placement nel film sono ossessivi), i dirigenti-burocrati le chiariranno che l’azienda vende sogni e le proporranno di entrare nella scatola.
Qui Barbie-stereotipo diviene ribelle e, anziché rientrare nella confezione, fugge per salvare Barbieland dal patriarcato.
Nel corso della fuga, aggrega a sé come aiutanti Gloria, la dipendente depressa della Mattel autrice dei pensieri di morte, Sasha, la ragazzina che odiava la bambola e Allan, bambolotto gay: ciascuno testimonial dell’ideologia decostruzionista di cui è imbevuto il mondo occidentale.
Ma Barbieland, trasformata da Ken in Kendom (una forma di patriarcato con il contributo dei cavalli) approfittando dell’assenza dell’amica Barbie, è una realtà ancora più confezionata e votata al consumo. Barbieland è un tipico prodotto americano che la macchina hollywoodiana non deve più occultare dietro pretese di trame più complesse e più intriganti.
La plastica è il materiale della non vita, in cui il pensiero della morte è un tabù giacché – come diceva Seneca – attraverso la vita si deve imparare a morire.
Da quasi un secolo la civiltà americana ha imposto, oltre alla fede nel consumismo, la patologia della normalità, quella di una società in cui è altissimo il tasso di suicidi, di tossicodipendenti e di alcolizzati. Il dato oggettivo che milioni di americani siano vittime dei fenomeni testé menzionati e siano affetti dagli stessi vizi, “non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana.” ( E. Fromm)
In fondo il successo della democrazia si fonda sul malinteso che questa coincida con la libertà.
Il primo diritto riconosciuto, ma non scritto nelle costituzioni, infatti, è l’accesso alla riproduzione di uno standard, la possibilità di diventare tutti uguali: merce destinata a scadere, carne consumata della specie elettrice.
La ragazza di plastica, novella femminista radicale, si oppone al patriarcato, ma lascia integro il sistema di ingiustizia e di infelicità: il neoliberismo.
Dopo la Disney, l’altra grande azienda artefice di stereotipi e, quindi, di infelicità e discriminazioni, la Mattel, si vota all’abbattimento degli stereotipi da essa stessa forgiati.
Indicare la Barbie-stereotipo bianca, ariana e dalle caratteristiche fisiche che coincidono con la bellezza codificata a partire dagli anni 50, come Barbie-femminista, è l’acrobazia del plot di questo lungometraggio.
La civiltà americana (e, di conseguenza, quella europea), attraverso la cultura e i media offre gli appigli con cui diffondere e percepire i vizi e i disturbi mentali (si pensi alla transessualità, alla pedofilia, ma anche all’avidità rapace trasfigurata in filantropia) come “normalità“.
Questa trasfigurazione è funzionale alle dinamiche del mercato, mai messe in discussione dai prodotti della Disney, della Mattel, ma anche da quei movimenti e fenomeni preconfezionati per i giovani (Friday for future, Ultima generazione, ecoansia).
Nella società del mercato gli esseri umani sono oggetti, merci e, il lungometraggio della Mattel, in questo, è molto onesto.
Non vi può essere alcuna critica alla reificazione degli esseri umani, dal momento che la Mattel è la seconda azienda del mondo per fatturato e la bambola Barbie è un prodotto in crisi di vendita.
Dice Peter F. Drucker: “Il carattere della nostra società è determinato e modellato dalla organizzazione strutturale delle grandi industrie, dalla tecnologia di uno stabilimento per la produzione di massa, e dalla misura con cui le nostre opinioni e le aspirazioni sociali sono realizzate dalle grandi società anonime“.
La manovra cinematograficamente goffa e poco credibile, è stata voler accreditare la bambola artefice degli stereotipi come matrice di un femminismo ante litteram, di un matriarcato inconsapevole in cui le bambine sono cresciute dall’irruzione di questa bambola sul mercato.
Nel film, Barbie sconfigge il patriarcato, conformandosi al modello diffuso dalla martellante propaganda. Lei e le altre bambole accetteranno la proposta della dipendente della Mattel di incarnare il nuovo stereotipo di Barbie-ordinaria, sottomettendosi così ai valori della cultura woke che ha demonizzato il cosiddetto male gaze (lo sguardo maschile, l’atto di raffigurare l’universo femminile da una prospettiva maschile, eterosessuale, che porta ad una rappresentazione delle donne come oggetti sessuali atti a soddisfare lo spettatore maschio).
La mediocrità del film (eccetto gli effetti speciali, unica risorsa incontestabile alla macchina hollywoodiana), teso a rilanciare la bambola e i titoli dell’azienda, si dipana in un disperata incursione nello Zeitgeist woke al fine di incrementare le vendite.
Ecco perché il lungometraggio della Mattel suona come il requiem del politicamente corretto.
Ma vi è un altro dato che emerge come messaggio non voluto dalla regista Greta Gerwig anche sceneggiatrice insieme a Noah Baumbach: la seduzione e la femminilità sono gestiti dall’estetica trans e dai burocrati che siedono alle scrivanie delle grandi aziende.
Il recinto costruito intorno a due forme di potere squisitamente femminili (altro che il matriarcato!) ne sancisce l’ineluttabile tramonto.
Le prime a dover rendersi conto dell’attacco che stanno subendo dovrebbero essere le donne che, però, come in tutte le distopie, avvertono le proprie catene come una liberazione.