Aleksandr Dugin
Nell’era della globalizzazione, l’Occidente non solo diventa esso stesso globale e onnipresente (come si esprime nell’uniformità delle mode mondiali, nella diffusione generale delle tecnologie informatiche e telematiche, nell’affermazione onnipresente dell’economia di mercato e dei sistemi politici e giuridici liberaldemocratici), ma nel suo nucleo, al centro di un mondo unipolare, trasforma qualitativamente il “Nord ricco” dalla modernità alla postmodernità.
D’ora in poi, per la prima volta nella storia, l’appello a questo Occidente nucleare – l’Occidente nella sua massima manifestazione – non porta con sé la modernità (di qualsiasi tipo, esogena o endogena), poiché l’Occidente stesso è d’ora in poi sinonimo non di modernità ma di postmodernità.
Ma la postmodernità, con le sue ironie, la pura tecnologicità, il riciclo del vecchio e la fede spenta nel progresso, non offre più alla sua periferia nemmeno una lontana prospettiva di sviluppo.
La “fine della storia”, che è arrivata, solleva questioni assolutamente diverse, di fronte al peso e al significato delle quali il tirare su l'”Occidente” al proprio livello del “Sud povero” appare come un compito assolutamente inutile, privo di scopo e insensato: se qualcosa si può trovare lì, le risposte ai nuovi problemi dell’epoca postmoderna sicuramente non saranno una di quelle cose.
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