di Vincenza Nassa
“La falsa emancipazione femminile ha portato alla creazione di donne, concentrate esclusivamente sul successo e sulla carriera, che hanno perso il contatto con se stesse, costantemente bisognose dell’approvazione altrui”.
Οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.
«Non sono nata per condividere l’odio, ma per condividere l’amore».
(SOFOCLE, Antigone, v. 523)
Con queste celebri parole Antigone, eroina dell’omonima tragedia di Sofocle, inscenata nel 422 a. C., risponde solennemente a Creonte, lo zio tiranno, artefice di un editto che vietava di seppellire i nemici della città di Tebe. La fanciulla, che vuole dare sepoltura al fratello Polinice, il quale aveva combattuto contro l’altro fratello, Eteocle, si fa portavoce di quelle che sono le leggi non scritte, le ἄγραπτα νόμιμα (àgrapta nòmima), che fanno parte di un corpus di norme consuetudinarie, ritenuto di origine divina e contrapposto al νόμος (nòmos), ovvero alle leggi della pòlis.
Una frase in apparenza semplice, concisa la sua, ma, ad una lettura più approfondita, forte e carica di significato, tipico dello stile di Sofocle. I due verbi συνέχθειν (synèkthein) e συμφιλεῖν (synphileìn), messi in antitesi da quel ἀλλὰ (allà) centrale, sono uno l’opposto dell’altro, ma accomunati dal prefisso συν- (syn), “con”. Dunque, il primo sta ad indicare un odio generale, di tutti contro tutti, il secondo un amore eterno ed imperituro, che va al di là di tutto, un amore incondizionato. Il verbo principale è ἔφυν (èphyn), imperfetto del verbo φύω (phýn), che significa “essere” ma anche “generare”, “nascere”. Quindi, Antigone non solo è l’amore, ma è stata generata per amare: l’amore è lo scopo di tutta la sua esistenza.
L’amore incondizionato a volte viene confuso con l’empatia, ma quest’ultima è una cosa ben diversa. Il termine, oggi ormai usato e abusato, deriva dal greco ἐμπάθεια (empàtheia), composto da ἐv (en), “dentro” e πάϑος (pàthos), “sofferenza”, vuol dire, quindi, “compassione” e veniva utilizzato, nel teatro antico, che aveva una funzione catartica, per indicare il legame emozionale e di partecipazione soggettiva che si veniva ad instaurare tra l’attore che recitava e la sua immedesimazione con il personaggio che interpretava.
Da sempre alla donna è stata attribuita la stessa caratteristica; cioè l’essere empatica, capire ed immedesimarsi nell’altro, semplicemente perché tutte le donne sono madri in potenza, direbbe Aristotele, e sono capaci di capire le esigenze dei propri figli, anche poche ore dopo la nascita.
Il problema nasce quando questa capacità innata tipica della donna viene applicata non solo al bambino, ma a tutti, innescando una deviazione sul piano emotivo della donna stessa che porta inesorabilmente ad un blocco di una corretta evoluzione femminile. Cosa significa tutto questo? Nel momento in cui ci si immedesima nell’altro (proprio come è indicato dalla preposizione ἐv (en), “dentro” del termine ἐμπάθεια), si cerca di capirlo o addirittura di anticiparne le esigenze e di prenderne su di sé il dolore, si sposta l’attenzione da se stessi all’altro, perdendo il contatto con il proprio io interiore, con la propria anima.
Viviamo in una società in cui alla donna viene richiesto di accogliere, di essere amorevole, di comportarsi, insomma, in un determinato modo nei rapporti con gli altri, come se si trovasse a svolgere sempre il ruolo della madre; anche perché ci si vanta dell’essere empatici, in quanto viene visto come sinonimo di capacità di comprensione e di sofferenza. In realtà, quando si ascolta troppo l’altro, si rischia di non ascoltare se stessi. Bisognerebbe, invece, imparare, anche se questo atteggiamento è ritenuto totalmente egoistico, dunque non empatico, a non andare dentro l’altro, a preoccuparsi di meno di cosa provano gli altri, raggiungendo la capacità di stare di fianco agli altri nel dolore, ma senza intervenire nel loro processo, sotto certi aspetti, evolutivo: πάθει μάθος (pàthei màthos), direbbe Eschilo, cioè l’apprendere attraverso la sofferenza.
È ciò che succede anche nel processo di crescita e di educazione dei figli: i cosiddetti genitori “spazzaneve”, i quali si preoccupano costantemente di “ripulire” e di eliminare ogni tipo di ostacolo che possa essere incontrato dai loro figli perché non sono capaci di dire loro dei “no”, che a volte sono altamente formativi: così facendo, si impedisce ai bambini di conoscere i propri limiti e di migliorare nel processo di apprendimento anche attraverso esperienze non positive, non essendo in grado di sviluppare un temperamento ed un io forte.
Ritornando all’empatia oggi richiesta, si può dire che essa sia anche un modo di affermare se stessi, per dimostrare che si esiste. È come se la donna dovesse dimostrare costantemente di esistere, di essere in grado di fare qualcosa e lo fa attraverso il controllo e l’interferenza continua nella vita degli altri, mettendo in atto quello che poi risulta essere un sostegno soltanto esteriore, e non interiore, in quanto questo modo di agire è sinonimo di una femminilità debole e non completamente sviluppata. Infatti, una donna che è in contatto con il proprio femminile, che risulta armonico ed equilibrato, è morbida, ricettiva, aperta, sa donare, sa irradiare, riesce a trasmettere e a prendersi cura degli altri, senza perdere se stessa, non confonde l’amore per l’altro con l’annullarsi per amore.
Parlando in termini di animus e anima, secondo la teoria di psicologia analitica di Carl Gustav Jung, in cui l’animus è la componente maschile presente nella donna e l’anima la componente femminile presente nell’uomo, in una donna empatica questa sigizia maschile-femminile risulta squilibrata, disarmonica, troppo a favore dell’elemento maschile.
Nel corso della storia la società ha attribuito alla donna caratteristiche proprie del maschile (e viceversa), creando paradigmi ad hoc finalizzati alla difesa di un sistema sociale, economico e politico totalmente interessato al denaro e al controllo. È la degenerazione da quell’inconscio collettivo, che Jung definisce “archetipo” (dal greco ἀρχή “archè”, origine, principio, e τύπος “typos”, modello, marchio, esemplare: in filosofia il termine è utilizzato per definire il principio primo, universale, originario ed eterno di tutte le cose), allo “stereotipo” (da στερεός “stèreos”, rigido, solido, a tre dimensioni). Se l’archetipo è uno strato dinamico senza tempo della psiche comune all’intera umanità in cui risiedono tutte le strutture universali (immagini, idee, sentimenti, comportamenti, ecc.), che l’uomo, in quanto parte dell’Universo, porta con sé dall’alba dei tempi, lo stereotipo è, contrariamente ad esso, una riproduzione, una copia, una duplicazione, che, con il passare del tempo, ha influenzato la definizione e l’educazione dell’uomo e della donna, andando ad inibire e ad imprigionare l’espressione del proprio Sé e della propria personalità.
L’elemento femminile, dunque, che tende di per sé al concepimento, alla trasformazione, alla nascita e alla rinascita, all’ospitalità e all’accoglienza dell’altro, è stato storicamente offeso, umiliato, e svilito. La forza intrinseca femminile si colloca esattamente agli antipodi della finta educazione, imperniata sulla cieca obbedienza, sulla docilità e sulla accondiscendenza, impartita nel corso dei secoli e in alcune società alle donne.
La falsa emancipazione femminile, poi, ha portato alla creazione di donne, concentrate esclusivamente sul successo e sulla carriera, che hanno perso il contatto con se stesse, costantemente bisognose dell’approvazione altrui. Processo analogo avviene anche per l’uomo, considerato tanto più valido quanto più riesce ad essere competitivo e scalatore sociale. È il risultato di quella che Erich Fromm chiama “crisi della società contemporanea”, che crea inesorabilmente una “crisi della vita stessa”, in quanto il nucleo emotivo umano è stato relegato nell’ombra, producendo generazioni di alienati ed analfabeti emotivi. Lo svilimento della forza femminile, dunque, insieme ad una educazione “non umana” e non emotiva, ha causato, nel corso dei secoli, uno scontro, piuttosto che un incontro, tra uomo e donna, nonché un rapporto conflittuale e malato e una confusione di ruoli. Adattarsi ad un sistema siffatto, piuttosto che agire come esseri unici dotati di coscienza e di emozione, non significa certamente evolversi, ma l’esatto contrario.
In conclusione, se la donna, che da sempre è la portatrice del cambiamento, riesce ad essere più sicura, più appagata, più centrata e più in contatto con se stessa e con il suo elemento femminile, si permette anche al maschile di riprendere il suo vero ruolo, cioè quello di protezione, ruolo che è stato volutamente svilito dalla società contemporanea, creando squilibri e disordini tra le due parti. Dunque, la vera evoluzione o “emancipazione” femminile sta proprio in questo: non cercare di volersi affermare a tutti i costi, dimostrando in qualche modo di “esistere”, ma imparare a stare accanto, ora sì empaticamente, ad un altro che soffre, rimanendo saldi in se stessi, nelle proprie certezze ed avendo fede nelle risorse dell’altro, al quale bisogna dare accoglienza nel momento del bisogno, non interferenza non richiesta.
Ritornando ad Antigone, la famosa eroina di Sofocle insegna a fare un profondo lavoro su di sé, a rimanere connessi con il proprio io, anche a costo di andare contro gli stereotipi della collettività, ad “uscire dall’empatia”, appunto, ed “entrare nell’amore incondizionato”.