Giuseppe Provenzale
La prima domanda se la pongono, nell’Esodo, gli ebrei di fronte alla manna, descritta “come seme di coriandolo, bianco, di sapore come di fior di farina con miele”, la seconda è quella che, nel Vangelo di san Giovanni, uno scettico, seppur tormentato, Pilato pone a Gesù.
Di fronte al divino, pur fisicamente presente, l’uomo si chiede cose a cui non sa fornire risposte, quesiti la cui proposizione, forse, per gli uomini – erranti – non prevede che ulteriori domande.
“Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”, la stessa, possibilità della verità è, da secoli ormai, “scientificamente” negata, limitata quando va bene, in nome di una sedicente libertà.
Ma della verità necessitiamo, come nutrimento, ben oltre i quarant’anni aneliamo ad essa, che nei giorni più caldi si scioglie al sole e, quando non raccolta abbastanza in fretta, viene attaccata dai vermi. La medesima sorte che subisce oggi: senza il rispetto delle regole che ne amministrano la fruizione non nutre, se lo scetticismo non permette di penetrarne il messaggio sarà la contingenza a determinare le nostre scelte, ad essa irrimediabilmente contrarie.
E le due domande permangono, restano domande. Ma, se chi, come Mosè nel deserto, ha responsabilità di comando crede nella verità, nessun catino d’acqua sarà richiesto per tentar di lavare, con le mani, la coscienza ed essa potrà almeno nutrirci, non priva di regole, perché è il solo cibo di cui, nel deserto, disponiamo. Un cibo che toglie la fame e soddisfa il palato, pietanza che non stanca, ma di cui si possono fare scorte limitate, e che, nonostante tutto, sempre scende dal cielo.
Rallegriamoci, dunque, come gli ebrei, facciamolo “anche così”, meglio – parafrasando sant’Agostino – ritrovare la verità senza capire che non capire senza ritrovarla.