di Fabio C. Maguire
Gli Stati Uniti con la guerra in Ucraina hanno perseguito un doppio obbiettivo geostrategico.
Washington ha ovviamente come priorità la capitolazione della Russia, il suo isolamento politico su scala globale e la caduta di Vladimir Putin.
Le ambizioni statunitensi per quel che concerne la Russia si sono infrante sulle capacità del Cremlino di rinnovarsi sul panorama globale come valida alternativa al paradigma occidentale di intendere e interpretare la politica.
La seconda ambizione perseguita dalla Casa Bianca, e su cui sta insistendo con veemenza, è il saccheggio dell’Europa e delle sue proprietà industriali.
E proprio da qui si evince l’interesse degli Stati Uniti nel provocare la guerra contro la Russia.
In primo luogo, gli statunitensi hanno rimpiazzato il gas russo e provocato un innalzamento dei prezzi dell’energia volto ad affossare il settore manifatturiero europeo e la sua competitività.
Ad esserne stata maggiormente colpita è stata la Germania, da cui dipende anche il tessuto imprenditoriale del Nord Italia, che sta affrontando una dura recessione economica e che vede progressivamente perdere investitori importanti che, in base ai recenti sviluppi, scrutano nuovi orizzonti e abbandonano il vecchio continente.
Questo è dovuto soprattutto ad una serie di provvedimenti che gli Stati Uniti hanno varato nell’ultimo biennio.
L’Inflation Reduction Act (IRA) ha difatti assestato un duro colpo all’economia europea.
L’IRA, composto da sussidi ed incentivi all’industria per 400 miliardi di dollari, traccia una linea chiara e incontrovertibile: portare la produzione, anche di gruppi stranieri, negli States.
Al di là di quelle che sono le piccole specificità dell’atto, esso si presenta come un “tentativo di spingere la crescita economica americana a scapito di altri paesi, amici o nemici che siano”.
Le attuali contingenze geopolitiche hanno poi determinato l’impossibilità di sostenere lo sviluppo cinese e il rafforzamento dell’economia statunitense congiuntamente, provocando così una netta rottura tra Pechino e Washington.
I dati rappresentano al meglio questa tendenza: dal 2021 al 2022, gli investimenti esteri diretti in Cina sono crollati da 344 miliardi a 47 miliardi di dollari.
Questa potrebbe anche essere la spiegazione più logica e plausibile per giustificare i crescenti attriti tra la Cina e gli Stati Uniti.
Ma a pagarne il prezzo, come già visto, è stata anche, e soprattutto, l’Europa, con la Germania a risentirne maggiormente.
Berlino, per seguire le politiche americane, oltre aver perso gran parte del suo export verso la Cina, rischia di perdere una buona percentuale delle sue capacità produttive proprio a causa degli incentivi garantiti agli imprenditori negli Stati Uniti.
Meyer Burger, colosso tedesco del fotovoltaico, ha dichiarato che la sua attività in Germania sta per esaurirsi per trasferirsi oltre oceano dove aprirà ben due stabilimenti, precisamente in Arizona e in Colorado.
Segue le sue orme anche la Volkswagen, la quale sembrerebbe orientata ad aprire la sua produzione di batterie elettriche in Nord America, invece che in Germania dove non potrebbe usufruire di 10 miliardi di dollari di incentivi.
Secondo l’Istituto Tedesco IFO circa l’8% delle capacità produttive di auto elettriche di case tedesche si traferirà sull’altra costa dell’Atlantico.
L’Europa difficilmente potrà far fronte alla competitività americana e gli investitori europei sono sempre più invogliati a trasferirsi altrove, in particolare a causa dell’elevato costo dell’energia che sta soffocando principalmente i settori energivori, la grande industria, la chimica e la siderurgia.